Forse adesso i fratelli Massimo e Raffaele Rossi potranno togliere il lenzuolo con la scritta «Chiuso per camorra», appeso alla cancellata il 5 gennaio. Avviso terribile, segno di resa. La resa non solo dei due ristoratori di Portici, proprietari del ristorante 'Ciro a mare', convinti a chiudere a colpi di attentati (sei in cinque anni) per aver respinto le richieste del clan, ma anche delle istituzioni che per troppo tempo li avevano lasciati soli, loro e tanti altri imprenditori del grande centro del Napoletano. Istituzioni assenti se non addirittura colluse. «Noi ce ne andiamo, avete vinto voi», avevano detto Massimo e Raffaele. Ieri 'loro', i camorristi, hanno perso. Ieri lo Stato si è ripreso la città. Lo ha fatto mettendo in campo tutte le sue forze, dai carabinieri all’esercito. Manette al potentissimo e onnipresente clan Vollaro. Azione di guerra, perché è guerra quella che purtroppo si deve combattere, tutti i giorni, sul fronte delle mafie. Azione di guerra in campo nemico, per riprendersi un territorio per anni abbandonato al potere camorrista, perché così era Portici: 60mila abitanti, una storia plurimillenaria, tradizione e modernità fin dalla ottocentesca prima ferrovia italiana. Portici diventata città del pizzo imposto in maniera sistematica a tutti gli imprenditori. Dalla culla alla tomba, anche ai fiorai del cimitero. Pizzo sul dolore. La mafia, qualunque mafia, non ha anima, non ha sentimenti, considera la vita meno di niente, ammazza e fa strage, e certo non si ferma davanti alla sofferenza. Anzi ci fa affari. Come con tutte la altre attività. Tariffe mensili personalizzate, più gli 'extra' per le festività. Perché il crimine costa, soprattutto quando il racket serve per accumulare i soldi necessari poi a finanziare il ben più lucroso affare della droga. Ma il racket è anche altro. È controllo del territorio. Pagare e non parlare. Pizzo e omertà. Sono la carte vincente dei clan, a Portici come in tante altre realtà del Sud (e non solo...). E chi paga diventa, indirettamente, complice di un sistema che solo così si perpetua. Nel silenzio dei soldi versati in cambio di una presunta protezione. Pagare sempre di più, fino a perdere l’attività. Un circolo da cui è difficile uscire. Eppure non è impossibile. In Sicilia la rivolta degli imprenditori onesti, guidati da una finalmente convinta e convincente Confindustria, sta dando buoni frutti. Questa primavera siciliana è una realtà. La Campania è ancora indietro ma segnali promettenti non mancano. Anche a Portici, dove nel silenzio dei più, sottolineato ieri dagli investigatori, qualche imprenditore aveva cominciato a ribellarsi. Nel nome della libertà, perché è proprio questa che la camorra toglie: libertà di lavorare e di dare lavoro, di sperare in un futuro diverso, bello, sereno. Anche a Portici è nata un’associazione antiracket. Ancora poca cosa, ma c’è. E questo preoccupa il clan. Non è certo un caso che lo scorso 4 giugno una busta contenente un proiettile sia stata recapitata nelle sede del Comune. All’interno tre nomi. Vincenzo Cuomo, il sindaco fortemente impegnato sul fronte anticamorra. Sergio Vigilante il presidente dell’associazione antiracket e don Tonino Palmese, sacerdote in prima fila nella lotta ai clan, responsabile di 'Libera' Campania e collaboratore del cardinale Sepe sui temi della legalità. Messaggio chiaro, l’ennesimo tentativo di condizionamento, al culmine di una raffica di minacce che aveva portato tutte le forze politiche a chiedere e ottenere l’intervento dell’esercito. Ma stavolta la risposta dello Stato è stata persino più chiara. La magistratura e le forze dell’ordine, malgrado le difficoltà e la penuria di mezzi e fondi, ancora una volta hanno fatto il loro dovere. La guardia, però, va tenuta alta, come ci ricordano le intimidazioni che un mafioso di Ragusa ha indirizzato a un gruppo scout, assegnatario di un terreno che gli era stato confiscato. Arrestato anche lui ieri. Bene. Ma ora serve altro. Serve una 'rivolta' di civiltà e di responsabilità contro le logiche e le pratiche di clan, cosche e ’ndrine. Non è impossibile. Proprio ieri, bella coincidenza, è stato presentato il 'Festival dell’impegno civile' che si terrà la prossima settimana in spazi confiscati al clan dei Casalesi. A organizzarlo il Comitato don Peppe Diana – intitolato al parroco ucciso dalla camorra – in collaborazione col mondo agricolo, amministrazioni locali, imprese, associazioni. Anche questo è 'riprendersi' il territorio. Per poter dire: «Non avete vinto, non vincerete».