giovedì 11 giugno 2009
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Forse adesso i fratelli Massimo e Raffaele Ros­si potranno togliere il lenzuolo con la scritta «Chiuso per camorra», appeso alla cancellata il 5 gennaio. Avviso terribile, segno di resa. La resa non solo dei due ristoratori di Portici, proprietari del ristorante 'Ciro a mare', convinti a chiudere a colpi di attentati (sei in cinque anni) per aver re­spinto le richieste del clan, ma anche delle istitu­zioni che per troppo tempo li avevano lasciati so­li, loro e tanti altri imprenditori del grande centro del Napoletano. Istituzioni assenti se non addi­rittura colluse. «Noi ce ne andiamo, avete vinto voi», avevano detto Massimo e Raffaele. Ieri 'lo­ro', i camorristi, hanno perso. Ieri lo Stato si è ripreso la città. Lo ha fatto met­tendo in campo tutte le sue forze, dai carabinieri all’esercito. Manette al potentissimo e onnipre­sente clan Vollaro. Azione di guerra, perché è guer­ra quella che purtroppo si deve combattere, tutti i giorni, sul fronte delle mafie. Azione di guerra in campo nemico, per riprendersi un territorio per anni abbandonato al potere camorrista, perché così era Portici: 60mila abitanti, una storia pluri­millenaria, tradizione e modernità fin dalla otto­centesca prima ferrovia italiana. Portici diventa­ta città del pizzo imposto in maniera sistematica a tutti gli imprenditori. Dalla culla alla tomba, an­che ai fiorai del cimitero. Pizzo sul dolore. La ma­fia, qualunque mafia, non ha anima, non ha sen­timenti, considera la vita meno di niente, am­mazza e fa strage, e certo non si ferma davanti alla sofferenza. Anzi ci fa affari. Come con tutte la altre at­tività. Tariffe mensili perso­nalizzate, più gli 'extra' per le festività. Perché il crimi­ne costa, soprattutto quan­do il racket serve per accu­mulare i soldi necessari poi a finanziare il ben più lu­croso affare della droga. Ma il racket è anche altro. È controllo del territorio. Pa­gare e non parlare. Pizzo e omertà. Sono la carte vin­cente dei clan, a Portici come in tante altre realtà del Sud (e non solo...). E chi paga diventa, indi­rettamente, complice di un sistema che solo così si perpetua. Nel silenzio dei soldi versati in cam­bio di una presunta protezione. Pagare sempre di più, fino a perdere l’attività. Un circolo da cui è dif­ficile uscire. Eppure non è impossibile. In Sicilia la rivolta degli imprenditori onesti, gui­dati da una finalmente convinta e convincente Confindustria, sta dando buoni frutti. Questa pri­mavera siciliana è una realtà. La Campania è an­cora indietro ma segnali promettenti non man­cano. Anche a Portici, dove nel silenzio dei più, sottolineato ieri dagli investigatori, qualche im­prenditore aveva cominciato a ribellarsi. Nel no­me della libertà, perché è proprio questa che la camorra toglie: libertà di lavorare e di dare lavo­ro, di sperare in un futuro diverso, bello, sereno. Anche a Portici è nata un’associazione antiracket. Ancora poca cosa, ma c’è. E questo preoccupa il clan. Non è certo un caso che lo scorso 4 giugno una busta contenente un proiettile sia stata re­capitata nelle sede del Comune. All’interno tre nomi. Vincenzo Cuomo, il sindaco fortemente impegnato sul fronte anticamorra. Sergio Vigi­lante il presidente dell’associazione antiracket e don Tonino Palmese, sacerdote in prima fila nel­la lotta ai clan, responsabile di 'Libera' Campa­nia e collaboratore del cardinale Sepe sui temi della legalità. Messaggio chiaro, l’ennesimo tentativo di condi­zionamento, al culmine di una raffica di minacce che aveva portato tutte le forze politiche a chie­dere e ottenere l’intervento dell’esercito. Ma sta­volta la risposta dello Stato è stata persino più chiara. La magistratura e le forze dell’ordine, mal­grado le difficoltà e la penuria di mezzi e fondi, an­cora una volta hanno fatto il loro dovere. La guardia, però, va tenuta alta, come ci ricorda­no le intimidazioni che un mafioso di Ragusa ha indirizzato a un gruppo scout, assegnatario di un terreno che gli era stato confiscato. Arrestato an­che lui ieri. Bene. Ma ora serve altro. Serve una 'rivolta' di civiltà e di responsabilità contro le lo­giche e le pratiche di clan, cosche e ’ndrine. Non è impossibile. Proprio ieri, bella coincidenza, è stato presentato il 'Festival dell’impegno civile' che si terrà la prossima settimana in spazi confi­scati al clan dei Casalesi. A organizzarlo il Comi­tato don Peppe Diana – intitolato al parroco uc­ciso dalla camorra – in collaborazione col mondo agricolo, amministrazioni locali, imprese, asso­ciazioni. Anche questo è 'riprendersi' il territorio. Per poter dire: «Non avete vinto, non vincerete».
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