Suonavamo
Nell’antro del re della montagna (dal Peer Gynt di Edvard Grieg) e improvvisamente è entrata in orchestra una parte che non avevo scritto. Era la voce baritonale dell’acqua e del vento che, in quel preciso momento, passava dalle parti del Duomo di Milano. Entrata giusta, ho pensato, in carattere col brano. Ha lasciato che ci mettessimo al riparo, non ha voluto mancare martedì sera all’appuntamento con l’Orchestra Esagramma.Dentro il Duomo, intanto, erano in moltissimi ad aver fatto di tutto per non mancare all’appuntamento, fissato dall’invito personale del cardinale Dionigi Tettamanzi. Il temporale, già con le sue avvisaglie sornione, li aveva incoraggiati. Li aveva fatti scendere dalle guglie, è vero, là dove in un primo momento era previsto il concerto. Ma aveva moltiplicato i posti a disposizione: da pochi e faticosi da conquistare, li aveva fatti diventare molti e facili da abitare. Per noi era il concerto del ringraziamento: nella chiesa della città, alla Chiesa e alla Città che ci hanno voluto bene. Non ce l’avremmo fatta, altrimenti, l’orchestra e io. È così, del resto, che deve succedere: buoni legami, accolti e sostenuti, diventano vitali per l’intera comunità. Solo nel Duomo – quando le cattedrali erano la sinfonia degli affetti più cari e più sacri di un’intera città – tutto questo poteva essere raccolto e illuminato. E noi, proprio lì eravamo. L’enorme aula, gremita di persone intente e felici di esserci, moltiplicava la nostra emozione. Ma ci dava anche lo struggimento di offrire il meglio del buon lavoro fatto. Molto lavoro. Non ci sono leggii del pressapochismo e della compassione, nell’Orchestra Esagramma. Tutti sono occupati da persone che si sono preparate con fatica e scrupolo al lavoro della musica: perché arrivino i suoni e l’anima, come devono essere. Come deve essere. È un lavoro fatto di buoni accordi e di buone armonie, in tutti i sensi. Accordi e armonie difficilissimi da conquistare, bellissimi da restituire. In più, accade qualcosa di speciale, che – da venticinque anni – mi tocca le corde dell’anima, fino al profondo. Succede, infatti, in questa Orchestra, che i grandi sappiano fare anche il lavoro dei piccoli. E che i piccoli imparino a fare il lavoro dei grandi. Ed entrambi ne siano felici. La domanda di chi non ha ancora visto e ascoltato è sempre quella: "Perché addossare, proprio a loro, il peso della grande musica, la soggezione del grande strumento?". La domanda si scioglie, vedendo e ascoltando. La risposta diventa semplice. Perché la grande musica non è un peso: è felicità di pensare alto e di sognare in grande. E il grande strumento è come un angelo dalle ali grandi e belle, che ti portano e vibrano con te. Chi parte dal basso, nella vita, non vede e non sente sin lì. Se però sei disposto a condividere con lui i pensieri e i sogni della musica, e lo porti con te, sarà contento di stare lì. Ci metterà tutto se stesso: comprese le parti della sua anima che non sapeva neppure di avere (e nemmeno tu). Dagli una possibilità, e lo farà. Se accade con la musica, accade una volta per tutte. E per tutte le altre parti della vita. (E lasciami dire anche questo, senza offenderti. Li vedi al lavoro, questi figli feriti, intenti e impeccabili, e capisci che quando distrai i tuoi figli normali dalla grande musica, li privi di parti dell’anima che non troveranno altrove. I piccoli grandi musicisti di Esagramma – e tutti i meravigliosi musicisti professionali che si fanno coinvolgere da questa esperienza – sono un argomento forte, anche per questo messaggio). Finito il bis dell’
Ave Maria, che dalla guglia più alta non si è persa neanche una nota della Sua festa, il cardinale è venuto in mezzo ai musicisti. Il pubblico si è dolcemente avvicinato, confondendosi con l’orchestra. Un punto rosso, un segno caldo, per una rete di fede e di affetti. Quanta ce ne vuole per vivere come Dio comanda. L’umano è diversamente distribuito, ma profondamente comune. E quando è condiviso, non ci sono handicap che tengano. Il bello che deve venire, arriva. Per tutti.