Gentile direttore,
è di queste ore la notizia che l’offensiva delle forze speciali irachene insieme alle truppe curde, con il supporto della coalizione a guida Usa, partita lo scorso 17 ottobre, ha consentito di riconquistare buona parte della città di Mosul, roccaforte del Daesh in Iraq, strappandola ai miliziani jihadisti. In definitiva, sembra – e anch’io me lo auguro di cuore – che i quasi 100mila soldati della coalizione stiano, più velocemente e inesorabilmente del previsto, avendo la meglio sulle truppe del “califfo”, armate fino ai denti e decise a tutto, persino a usare cittadini inermi, compresi i bambini, come scudi umani, con metodologie barbare analoghe a quelle dei nazisti nel secondo conflitto mondiale. Viene da chiedersi “Mosul 2016 come Berlino 1945?”. Mi rispondo che tutti dovremmo prendere atto e ringraziare i valorosi soldati della coalizione che, a rischio della vita, stanno combattendo per liberarci, speriamo definitivamente, da un vero e proprio flagello, non disgiunto da ciò che sta avvenendo in Siria, che aveva ormai assunto dimensioni mondiali.
Clemente Carbonini, Tirano (So)
Abbiamo speranze ovviamente comuni, gentile signor Carbonini, per l’Iraq nella tempesta da troppo tempo. Tanto più che nel frattempo, in Siria, è cominciata anche la battaglia di Raqqa. Ma credo che dobbiamo aver ben chiaro che per «liberarci definitivamente» del flagello rappresentato oggi dal Daesh e ieri da al-Qaeda – cito il titolo che ho dato all’editoriale di Riccardo Redaelli di giovedì scorso – «vincere non basta». Non basta la riconquista sul campo di Mosul e neppure basterebbe liberare l’altra città, ora capitale dell’autoproclamato “califfato nero”.
Dobbiamo essere grati a chi sta sradicando il Daesh dalle sue roccaforti, ma non dimenticare mai che ogni impresa militare è un passo necessario eppure non sufficiente se non si vuol sostituire una supremazia a un’altra o perseguire cinici giochi di equilibrio e di potere, e si vogliono riparare le inenarrabili violenze e i soprusi compiuti dai jihadisti e ricucire le ferite inferte dai fondamentalisti sunniti alla persone – donne schiavizzate, uomini massacrati e umiliati, bambini cinicamente strumentalizzati – e alla civile convivenza in Iraq e Siria. Il dramma dei nostri fratelli cristiani e degli altri perseguitati, yazidi in primis, non si concluderà con una riconquista militare. Lo splendido e fragile mosaico costituito dalle differenti religioni per secoli compresenti nel Vicino Oriente non si ripara né custodisce con bombe, carri armati, missili e mitra. Serve la politica, serve una visione strategica per l’area e per i popoli che là sono insediati, serve – sono certo che lei mi capirà – un autentico rispetto del sacro e ci vuole un degno spirito religioso. E per ora mi fermo qui.
Marco Tarquinio