giovedì 12 marzo 2009
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Non sono stati loro. I due romeni catturati a tempo di record per l’infame stupro della Caffarella, i due mostri che un’opinione pubblica sgomenta e furibonda avrebbe voluto sepolti a vita in una galera, e per alcuni persino consegnati per qualche attimo alla vendetta sommaria del ' dateli a noi' piuttosto che protetti dalle sbarre, non hanno commesso lo stupro. Il Dna repertato sulla vittima non appartiene a loro, il Dna è una prova che vale certezza scientifica, il Dna li scagiona. E adesso l’emozione si rovescia, dunque, se appena immaginiamo che cosa sarebbe stato di Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz appena pochi decenni fa, quando il test del Dna non esisteva. Cosa sarebbe stato, in presenza di un riconoscimento da parte della vittima, e di una ' piena confessione' da parte del ragazzo ventenne, zeppa di particolari; e poi il peso del ' profilo romeno'. Abbiamo un bel contentarci di rifare il percorso degli atti di indagine e annotare che hanno rispettato le regole: denuncia, identikit, visione delle foto segnaletiche, riconoscimento in foto, verifiche, arresto, interrogatorio, confessione videoregistrata, chiamata in correità, arresto, test del Dna. Il rispetto delle regole non dovrebbe mai neanche diventare un problema su cui si possano sollevare dubbi, ci mancherebbe. Ciò che fa problema è un’altra cosa: è che si può diventare mostri in tre giorni con un collage di indizi che finiscono per diventare schiaccianti e partorire certezze quando gli atti processuali di supporto ( riconoscimento, confessione) li cementano, e invece il fatto non era vero. Come se ci fosse una polimorfa endogenesi fra gli elementi di colpa che si evocano a vicenda, che ci vorrebbe Kafka a descrivere. Siamo stati frettolosi. La giustizia ha rimediato. La giustizia è un mestiere umile, un mestiere paziente. È il mestiere che conosce le investigazioni febbrili in lotta col tempo, ma che non può avere sul collo il fiato di una opinione pubblica impaziente di avere tra le mani il mostro. E il suo metodo è costantemente quello del dubbio e del riscontro. Anche per il riconoscimento? Sì, anche per il riconoscimento, che può essere fallace. Anche per la confessione? Sì anche per la confessione, che non è affatto la prova regina. Anzi, al punto in cui sono le cose, c’è da chiedersi la ragione per la quale Alexandru ha confessato di aver commesso lui uno stupro che ha lasciato sulla vittima il Dna di un altro. Perché anche a questo bisogna trovare una risposta persuasiva. Il processo non è finito, e fin qui ha dato prova, accanto ai rischi di fallacia che ogni indagine può incontrare, pronta a cambiare direzione, anche di quell’irrinunciabile garantismo che lo deve caratterizzare. Perché la giustizia vuole un cammino diritto, e le prove si cercano per se stesse, per l’approdo alla verità e non selettivamente per rincalzo a giudizi previ. Questo significa che la giustizia si muove senza timidezza, ma senza ostilità, senza sperare, vorrei dire, se non la verità. Con la prova del Dna sul piatto della bilancia, mette qualche sconcerto che per togliere ad Alexandru la scarcerazione ordinata dal tribunale del riesame si escogiti l’accusa rovesciata che la sua confessione era falsa. Si è accusato di uno stupro che non ha commesso, e ha accusato anche l’amico. Dunque ancore sbarre? Un uomo accusato e fatto mostro e poi trovato innocente ha ragione di ricevere rimedio e ristoro; e ciò il tribunale ha fatto. Un innocente che si è accusato mostro e non lo era, forse ha sofferto ancora di più. Data la prova Dna, sconcerta che per togliere la scarcerazione si escogiti l’accusa che la confessione era falsa
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