La presenza di Benedetto XVI alla beatificazione di Paolo VI – che ha commosso papa Francesco e tutti i presenti in piazza San Pietro – non rappresenta solo il deferente omaggio di un pontefice emerito alla santità di un suo predecessore sulla cattedra di Pietro, né la devota gratitudine di un cardinale che ricevette la porpora da Papa Montini nel 1977. C’è un filo bianco che unisce i due Papi attraverso una sintonia profonda: culturale, spirituale e d’azione al medesimo tempo. L’afflato umanissimo e lo sguardo profondo, radicale, che li unisce nascono dalla familiarità col pensiero di maestri comuni cui hanno attinto nella loro formazione intellettuale e nel loro amore alla Chiesa e all’uomo, a tutto l’uomo e a ciascun uomo, un pensiero e un cuore autenticamente 'cattolico', cioè universale. Se, come molti hanno sottolineato in questi giorni, il passo del pontificato montiniano è stato profetico, il respiro di quello ratzingeriano ha abbracciato e fatto proprio il compimento di questa profezia sull’uomo contemporaneo e la sua cultura attraverso la lucidità del giudizio, la franchezza della testimonianza e la tenerezza della carità. A modo di esempio di questo sguardo sintonico sull’umano integrale e la sua vicenda storica, drammatica, riprendiamo il bel titolo che l’allora cardinale Joseph Ratzinger riservò al beato Montini in un testo poco noto scritto nel 1995: «Paolo VI, avvocato della persona umana» (pubblicato nel 2010 sull’
Osservatore Romano). In quel testo, Benedetto XVI offre una sintesi singolare e persuasiva degli anni del pontificato di Paolo VI, un clima che sembra ripresentarsi oggi: «Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il Concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi». L’anno 1968 fu il segnale della svolta: «una rivolta dell’epoca moderna contro sé stessa», la definisce lo stesso Joseph Ratzinger. Una cesura radicale, definitiva con il passato, il rifiuto di confrontarsi con qualunque ragione e tradizione, una smania di 'novità' che dissolve l’uomo – il suo 'io', il suo 'cuore' – in una miriade di frammenti impazziti proiettati centrifugamente lontani da ogni centro di gravità dell’umano, anche quello che aveva catalizzato l’alba della modernità. «Quell’epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi, ora non doveva più esserci». Paolo VI seppe raccogliere questa sfida, assai più radicale e pervasiva di quella con cui si era confrontato il Concilio, e proprio nel 1968 pubblica due grandi documenti: la
Professione di Fede (30 giugno) e l’enciclica
Humanae vitae (25 luglio). «Essi corrispondono a un determinato momento e alle sue sfide – osserva Ratzinger –, ma vanno molto al di là del momento storico e appartengono al patrimonio permanente della Chiesa, anzi, se li rimeditiamo adesso, dopo tutto quello che è avvenuto, notiamo quanto essi siano attuali e adatti al momento presente». La riaffermazione della verità della fede nella Professione e di quella della ragione illuminata da essa nell’
Humanae vitae testimoniano che la persona umana e il suo destino non sono definiti dal parere di una maggioranza qualificata (neppure ecclesiale), ma dall’opera della creazione e della redenzione che si riverbera eminentemente nella vita dei credenti, dei santi. «Nella Chiesa non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi – ricorda il futuro papa Benedetto – contro i grandi testimoni della fede che caratterizzano tutta la storia. Essi appartengono sempre al presente, e la loro voce non può essere messa in minoranza». Nel beato Montini, Benedetto XVI ha trovato l’impeto del suo pontificato a difendere la dignità e la libertà dell’uomo contro ogni visione antropologica riduttiva, deterministica e materialistica, leggendone anche il magistero più impegnativo e discusso – quello dell’
Humanae vitae – «come arringa in favore dell’umanità dell’amore e in favore della dignità della sua libertà morale», pronunciata da un autentico «avvocato della persona umana». Senza far venir meno «la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone», Paolo VI ha avuto a cuore l’umano intero, l’amore e la libertà nella loro pienezza e nel loro splendore. Per questo, «ha resistito – disse Ratzinger in un’omelia dell’agosto 1978 – alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità».