martedì 4 agosto 2009
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Hanno tirato pietre, poi hanno dato fuoco alle abitazioni con un com­bustibile particolarmente difficile da contrastare. Un chiaro indizio della vo­lontà premeditata di provocare i massi­mi danni. Quindi, hanno inseguito i cri­stiani in fuga dalle fiamme – fossero an­che donne e bambini – sparando con pi­stole, mitragliatori e un lanciagranate. Scene di bestiale violenza quelle che sa­bato scorso si sono svolte a Gorja, nel Punjab orientale pachistano, che è bene non fare scomparire troppo presto dalla labile memoria mediatica che ci caratte­rizza. Quelle nove vittime, martirizzate in no­me di una folle intolleranza, reclamano che il loro sacrificio sia riproposto senza timori di suscitare fastidio o disagio, con­tro le facili amnesie di chi cerca d’igno­rare ciò che avviene in Asia a spese delle minoranza più debole, esposta e indife­sa. Che le accuse di blasfemia – aver strac­ciato una copia del Corano durante un matrimonio – siano del tutto inventate e pretestuose per tentare di giustificare il pogrom non vi è neppure il bisogno di sottolinearlo. E, comunque, nessun pur ipotetico gesto di dissacrazione potreb­be dare la benché minima motivazione a un massacro contro famiglie inermi. «Attacchi insensati», li ha infatti definiti Benedetto XVI nel suo messaggio al ve­scovo di Faisalabad, in cui invita tutti i cristiani del Pakistan a «non farsi scorag­giare nei propri sforzi di contribuire a co­struire una società che, con profondo senso di fiducia nei valori religiosi e u­mani », sia caratterizzata «dal rispetto re­ciproco tra i suoi membri». E bene ha fat­to il ministro degli Esteri Frattini a chie­dere che «si svegli finalmente la coscien­za dell’Unione europea e delle Nazioni Unite», ponendo la libertà di religione come valore assoluto. Non sembra nemmeno un caso che nel­le stesse ore in cui da Islamabad giunge­vano le tragiche notizie degli assalti, si apprendesse che in India sono stati as­solti i presunti mandanti delle stragi di cristiani compiute nell’agosto 2008 nel­l’Orissa, sempre in seguito ad accuse montate ad arte contro la comunità re­sidente nello Stato. L’accostamento dei due casi, pur molto diversi, permette di evidenziare quella che sembra una ten­denza in atto: l’essere le minoranze cri­stiane diventate in alcuni Paesi l’obietti­vo privilegiato dei radicali e dei fanatici alla caccia di un gruppo ben identifica­bile su cui scaricare tensioni e pulsioni, al quale addossare responsabilità per si­tuazioni di crisi, secondo uno schema del capro espiatorio ben noto in tanti fasi della storia, in moltissime culture. Frange fondamentaliste islamiche (co­me in Pakistan e in Iraq) o indù (come nel subcontinente indiano) prendono a bersaglio i pacifici cristiani che in nulla turbano credenze, beni o equilibri sociali delle maggioranze locali, quando in realtà ben altre sono le fonti di instabilità o di crisi. Spesso il 'collegamento' con l’Occidente, ritenuto in qualche misura seconda 'patria' dei credenti in Cristo qualunque sia la loro origine nazionale, contribuisce a farne ideali figure di 'ne­mici', forse anche perché in genere im­permeabili alle predicazioni settarie di odio e di violenza. Tutto ciò dovrebbe fare sì che l’Europa dimostri meno pavidità e superi quel non espresso pregiudizio negativo, quasi che essere cristiani in quei Paesi sia un biz­zarro esercizio rischioso e che quindi le persecuzioni un po’ i fedeli se le siano cercate – come a bassa voce si biasima chi si infortuna praticando un hobby stra­vagante e pericoloso. A qualcuno potrà non piacere, ma difendere i cristiani og­gi, dal Libano alla Cina, significa soste­nere una salutare battaglia per i diritti e le libertà fondamentali, promuovere la tolleranza e seminare per la democrazia e lo Stato di diritto. Tutte cose di cui ci piace discettare. Ma che chiedono azio­ni precise e decise. Anche, e soprattutto, davanti a innocenti bruciati vivi in nome di una distorta idea della religione.
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