Ansa
Gentile direttore,
ho letto con interesse la statistica da cui si evince che le donne che hanno un lavoro a tempo indeterminato rispetto alle disoccupate, hanno minore propensione a mettere su famiglia. La mia interpretazione è che una volta che si è assaporato il valore e il piacere dell’indipendenza, almeno per un po’ di anni, è difficile immaginarsi di rientrare in un ruolo di dipendenza come è quello, quasi sempre, di moglie e madre. A meno che non si abbia un istinto fortissimo di maternità, e penso che molte donne – come me – non c’è l’abbiano, accettare il ruolo della donna in famiglia, almeno con il modello maschile ancora imperante, è molto pesante. Qualunque sia il tuo lavoro – donna medico, ingegnere, architetto, commessa, operaia etc. etc. – il carico di lavoro familiare spetta quasi totalmente alle donne e ben si è visto nei lockdown. Solo le donne non indipendenti economicamente aspirano al matrimonio, è un modo per “sistemarsi” e sperare di essere padrone a casa propria. Sono parole dure, lo so, ma meglio lo stipendio del doppio lavoro. Attorno ai 40 anni, può venire qualche rimpianto, ma basta avere qualche amica sposata per farselo passare.
Maria Albanese Udine
genitore in un futuro prossimo. Dunque, la società italiana è già post-familiare: matrimonio pressoché scomparso dall’immaginario dei giovani, legami fluidi, individualismo, bambini il minimo indispensabile... Tutto bene, in nome della libertà di ciascuno, come sembra suggerire la nostra gentile lettrice? O piuttosto, come invece sembra a noi, il frutto avvelenato di una società che si è arresa alle storture che impediscono a un uomo e ancora di più a una donna di essere pienamente e compiutamente felici? Di una società, ancora, che ci illude che la libertà sia viaggiare, lavorare senza sosta, consumare?
No, non possiamo rassegnarci (e sia detto per inciso, non crediamo che nel 2021 siano numerose le donne che si sposano per “sistemarsi”, anche se sappiamo che la mancanza di un lavoro restringe lo spazio di libertà di molte). Si deve continuare insieme, madri e padri, a reclamare sostegni e servizi per armonizzare il tempo della famiglia e quello del lavoro: è dimostrato infatti che laddove essi sono presenti la scelta generativa è favorita. Ci si deve educare, uomini e donne, alla condivisione
dei carichi familiari perché nella coppia siano distribuiti in modo paritario. Ci si deve impegnare, lavoratrici e lavoratori, perché nelle aziende i figli non siano un ostacolo alla carriera. Si devono intensificare gli sforzi perché i salari siano uguali a parità di mansioni. Perché nessun uomo e nessuna donna si senta oppresso o debba scegliere tra carriera e famiglia. E poi bisogna raccontare il bello e il buono che si vive nelle famiglie italiane: il bello della cura e dell’accoglienza, il buono di un affetto che si trasmette di generazione in generazione. È vero, crescere un figlio può essere faticoso, soprattutto in una società che tende a lasciare soli i giovani genitori e che spaccia l’assenza di legami per libertà. Ma è una avventura senza paragoni, un’esperienza che dà senso a una vita intera. Bisogna dirlo, bisogna mostrarlo anche rivoluzionando una narrativa (mediatica e artistica) a senso unico. Perché il rimpianto di cui parla la gentile lettrice alla fine della sua lettera, riferendosi alle 40enni (anche ai 40enni, aggiungiamo
noi), alla lunga non si trasformi in rimorso.