venerdì 27 dicembre 2013
Viaggio nelle aree di crisi che rischiano di deflagrare.
Riccardo Redaelli
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È ormai da decenni che il Medio Oriente è al centro dell’attenzione internazionale; soprattutto dopo la fine della guerra fredda, questa è la regione che più di ogni altra al mondo ha catalizzato le paure e le speranze, le iniziative politiche, le azioni militari, i tentativi diplomatici della comunità internazionale. E come un buco nero ha finito per divorare le aspettative dei suoi popoli e le illusioni di pace, ha distrutto progetti, schiantato eserciti che si credevano imbattibili, infranto grandi disegni strategici. Quanto più l’Occidente si è intestardito a cercare di stabilizzarla – dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia, al processo di pace in Palestina – quanto più la grande regione mediorientale è sembrata preda di un sortilegio che la rende anno dopo anno sempre più instabile, preda di violenze settarie, incapace di trovare un suo equilibrio interno e nello stesso tempo ostile alle ingerenze esterne. Non sorprende allora che in questi anni, in una Washington scossa dal disastro iracheno, delusa dall’impegno in Afghanistan e perplessa dinanzi agli effetti contradditori della primavera araba, si sia diffuso lo slogan «via dalle sabbie del Medio Oriente» e da tutti i suoi complicati arabeschi politici, dai suoi intrighi, dalla sua corruzione, dai fallimenti in cui sono sprofondate tante presidenze americane, da Carter a George W. Bush.Ascoltando le notizie di un ennesimo triste Natale che giungono da laggiù, la tentazione di voltare la testa appare in effetti forte non solo negli Stati Uniti. Come ogni anno, le celebrazioni della nascita di Cristo in Iraq sono state un richiamo irresistibile per il terrorismo islamico che ha colpito vigliaccamente una comunità cristiana già devastata da anni di violenze. E ci ha ricordato che Baghdad è lungi dall’essere una città sicura. Anzi, la violenza quest’anno è tornata con prepotenza, rispingendo il paese verso lo scivoloso crinale di una strisciante guerra civile. Di nuovo sull’orlo dell’abisso, insomma. Così come sul ciglio sembra essere una Libia che appare ogni giorno di più come una nave senza pilota, con un governo incapace di fermare le violenze delle milizie che spadroneggiano nel Paese e che non ha saputo dare le risposte attese dalla regione della Cirenaica in tema di decentramento e federalismo. Così le spinte disgreganti e secessioniste si uniscono alla corruzione e ai traffici illeciti, alle bande criminali e al terrorismo islamico. A dimostrazione che gli interventi internazionali affrettati e mossi dall’ambizione (o dalle mire economiche) di singoli Stati non producono mai grandi risultati.Ma sull’orlo di una nuova stagione di violenze sembra essere anche l’Egitto, una delle colonne storiche del Medio Oriente e che da tempo sembra essersi smarrito. Il governo di transizione che gestisce il potere dopo l’estromissione del disastroso presidente islamista Mohammed Morsi ha deciso di considerare l’associazione dei Fratelli Musulmani come un’organizzazione terroristica, in risposta alle violenze dei suoi sostenitori. Una mossa che sembra riportare l’Egitto al 1954 allorché Nasser cercò di sradicare la Fratellanza con la repressione. Una linea fallimentare allora e che si dubita servirà a riportare la calma oggi: proprio ieri, quasi in risposta alla linea dura, sono state piazzate diverse bombe nel cuore della capitale da gruppi jihadisti. Una sola è esplosa, fortunatamente, ma i militari non potranno contare sempre sulla fortuna. E si illudono se pensano di cancellare una realtà così radicata nella società come la Fratellanza, usando l’etichetta di terroristi. Se c’è una cosa di cui ha bisogno quel Paese è invece la capacità di confrontarsi con l’altro, non di schematismi divisivi e polarizzanti (gli stessi che hanno portato alla fine del governo islamista).Piombata da tempo nell’abisso delle violenze settarie è invece la Siria, che rischia di trascinarsi appresso anche il fragile mosaico libanese. O, più a sud, il Sud Sudan, la cui breve vita indipendente è piagata dai conflitti interni. Insomma, come si diceva, la tentazione di guardare al Medio Oriente come a una regione senza speranza, da cui è meglio tenersi alla larga è certo forte. Ma si tratterebbe di una decisione pericolosa e illusoria. E non solo perché basterebbe la geografia a spiegare che se l’Europa non va verso il Medio Oriente, sarà il sud del mondo ad andare verso l’Europa. Lo dimostrano le terribili vicende dei migranti che fuggono dalle tante aree di disperazione per arrivare qui da noi, ma lo provano anche la nostra sete di energia e il crescente squilibrio demografico del Vecchio (anche anagraficamente) Continente. No, non possiamo illuderci di girare la testa. Anche perché, assieme ai tanti disastri, dalla regione giungono vari segnali positivi.Dopo un decennio di estenuanti negoziati, finalmente si è raggiunto un primo accordo – per quanto temporaneo e fragile – sul nucleare iraniano. E a Teheran, sembrano ora prevalere – nella lotta fra le diverse fazioni politiche – le voci più moderate e aperte all’Occidente. Dobbiamo sostenerle cercando di favorire una re-inclusione dell’Iran a livello regionale e internazionale. Soprattutto in vista della nuova conferenza diplomatica sulla Siria che, al momento, è la nostra carta migliore per cercare una soluzione credibile. Senza preclusioni e senza dogmatismi, ma anche consapevoli che la pluralità religiosa e identitaria siriana non può sopravvivere alla visione intollerante dei movimenti islamisti più aggressivi. E qualche segnale sembra venire dal processo di pace israelo-palestinese, spiaggiatosi come una balena da quasi quindici anni. L’indebolimento di Hamas e la riduzione delle spaccature dentro il fronte palestinese possono forse favorire un atteggiamento meno duro – e a volte tracontante – del governo Netanyahu, riavviando il dialogo fra le parti.Per sostenere questi "germogli di moderazione" occorre nuovamente l’attenzione della comunità internazionale. Possibilmente rifuggendo da unilateralismi e tatticismi egoistici. Washington sembra averlo capito, Parigi e Londra meno, ma la drammatica lezione libica si spera induca Francia e Gran Bretagna a un’azione più concertata con il resto dell’Europa. Mosca, che ha recentemente colto diversi successi geopolitici, pare collaborare. Mancano ancora all’appello i Paesi arabi sunniti del Golfo, ossessionati da un furore anti-sciita e anti-persiano che sta contribuendo alla destabilizzazione regionale. Se le monarchie petrolifere continueranno su questa strada, vi saranno ben poche speranze di stabilizzazione. E incerta è anche la posizione di una Turchia che sta pagando il velleitarismo geopolitico del governo islamista di Erdogan, il cui declino politico e la cui involuzione autoritaria rendono Ankara un attore regionale imprevedibile.È quindi bene rifuggire dalle illusioni del disimpegno internazionale: con il Medio Oriente il nostro Paese e il nostro continente dovranno al contrario interagire sempre più. Auspicabile che si inizi a imparare dagli errori passati e che si affrontino i problemi di quella regione – e che da quella regione arrivano a noi – con meno superficialità e meno egoismo nazionale. Il conto tanto, lo si vede bene, lo si paga tutti assieme.
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