La salute mentale, di cui da ieri si celebra la giornata nazionale, con eventi che si svolgeranno fino a gennaio, non è una questione sanitaria normale. Non ha rapporti con la sclerosi, con l’Aids, con il cancro.
Ha rapporti con il nostro essere umano dall’origine. Dal nostro passaggio dall’ominide all’uomo, con le mutazioni del pianeta e i cambiamenti storici, sono cambiate le malattie, ma la questione della salute mentale è da sempre identica, naturalmente declinata in termini differenti. Come l’uomo, secondo il grande paleoantropologo Yves Coppens e lo storico delle religioni Julien Ries, nasce intrinsecamente religioso e simbolico, Homo religiosus (e quindi poeta) prima ancora che Homo sapiens, così l’uomo nasce con il fardello congenito della malattia mentale: la nostra genesi ci vede religiosi, simbolici, potenzialmente minabili nella mente. La peste oggi non è che un motivo letterario, la lebbra e il colera morbi che riguardano o il passato o altri mondi, disperati e privi di risorse, l’Aids una novità, altre malattie hanno nomi e identità solo perché recentemente sono state scoperte e definite, anche se esistevano già, inconosciute, non sappiamo da quando. La malattia mentale è inscritta nel Dna umano come la poesia. La mente può ammalarsi in una varietà infinita di forme: dai libri religiosi e dalle fiabe apprendiamo le storie di re saggi che impazziscono divenendo violenti e tirannici, di scemi del villaggio, limitati nella parola e nel pensiero, che si rivelano dispensatori di saggezza, di uomini forti e sapienti che invecchiando perdono il lume della ragione, vengono raggirati, di altri che sin da giovani sono minati dalla debolezza di carattere, dalla tendenza suicida, dal delirio. La malattia mentale non ha storia, e non è riducibile alla follia.
Sarebbe facile, anche se relativamente: come mettere sullo stesso piano la follia di Hitler e di Stalin, mostruosa e infernale, e quella del poeta Dino Campana e di Van Gogh, che producono opere di visione e bellezza? Ma, fingendo che quello della follia sia un problema semplice, la malattia mentale ha ben altri orizzonti: va da quella che ora si definisce depressione alle manie persecutorie, a fenomeni più gravi dal punto di vista psichiatrico, sindromi ossessive, realtà disperanti di alienazione, paranoia, scissione.
La grande letteratura e il grande teatro mettono in scena quello che avviene sulla scena del mondo: la malattia mentale non è solo quella dell’efferato Macbeth o del folle Lear, ma anche del malato immaginario di Molière, o dell’avaro dello stesso autore. Sarebbe comodo relegarla ai pazzi 'ufficiali', alligna tra noi, nella vita quotidiana, da sempre. Ciò dovrebbe ammonirci a non reprimere il malato mentale, ma a combattere il germe del suo male, che può colpire ognuno di noi.
Facile a dirsi. Ma la pratica della compassione e la serietà di tanti specialisti della psiche inducono a non essere pessimisti. E poi ci sono gli esempi, più efficaci di ogni teoria, come le parabole. Nanni Garella, uno dei registi italiani più significativi del panorama contemporaneo, in questi anni ha realizzato spettacoli straordinari con attori reclutati tra giovani malati di mente, spesso con sindromi pesanti. Li abbiamo visti in scena, sono diventati davvero attori. Garella, portando in scena Pirandello e altri autori con dei giovani affetti da problemi mentali, ha ristabilito un equilibrio incredibile. Ha sdoganato la follia, ma non a caso. No, restaurando, con le armi dello spirito e della disciplina, un giusto ordine. Può essere un modello, una chiave di lettura del problema: il malato di mente ha bisogno di immaginazione. E anche noi, che ci scopriamo non puri spettatori, ma suoi simili.