L’aspetto allucinante di una 'violenza di legge' cosiffatta, per quella bimba strappata alla madre, era parso poi modificato dalla notizia del colloquio fra il giudice e la donna, mesi dopo, quando questa avrebbe consentito a un temporaneo affido a una famiglia, chiedendo però che vivesse in Italia. Ma tutte le istanze, gli interventi, gli avvocati, i ricorsi a Tribunali, ministeri, consolati, per riavere la figlia, sono stati un vano e angoscioso calvario. La sostanza si è confermata questa, al nocciolo: che non può riaverla, o interloquire per il suo futuro destino, nonostante chieda "giustizia" ai tribunali; e che i giudici, i consoli, i ministri del Paese della madre sembra che non possano farci nulla.
Se le cose stanno davvero così e non hanno altra spiegazione o non trovano altra piega, non è un conflitto fra civiltà, ma assenza di civiltà. Ci sono i diritti umani fondamentali che gridano, e il dolore (pensare al dolore della madre è istintivo e naturale, ma c’è anche il dolore immanente dell’ingiustizia fatta subire alla figlia, che segna la sua vita) di fronte ai quali le questioni territoriali, o di competenza, o di prerogative sovrane cedono il passo.
La regola suprema è il best interest del minore, dicono tutti i Trattati. Ma quale pregiudizio temuto pareggerebbe – se non un’extrema ratio di salvataggio del minore – una maternità spezzata in due? Sbagliare, qui, è micidiale; sicché non giovano le mezze indignazioni, ci vuole la risolutezza con la quale, finalmente, il giudice sir James Munby presidente della Family Division dell’Alta Corte ha avocato il caso. Non abbiamo dubbi che l’Inghilterra sia un Paese civile, al quale può chiedersi conto e ragione; così come l’Italia è un Paese civile, capace di chiedere a schiena dritta ragione e conto. Noi non vogliamo essere i giudici dei giudici, ma capire sì, e attendiamo spiegazioni e decisioni civili e umane. C’è un aspetto umano "universale" toccato dalla scissione del rapporto madre-figlio.
È scritto nella Costituzione, all’articolo 31, che «la Repubblica protegge la maternità». La maternità non è il bambino, non è la donna; è la donna e il bambino insieme, è il loro abbraccio nella felicità simbiotica; i due volti nell’unica creta, se immaginiamo un’opera d’arte quale ci hanno consegnato infiniti artisti (mi viene in mente qui Medardo Rosso), intitolata "maternità". L’idea della maternità spezzata paga dazi tremendi alle teorie conflittuali. Su un versante è capace di vedere il figlio come una minaccia, o un peso, una fatica, una responsabilità insostenibile, fino al punto da inventare "scelte" (non ragioni) per rifiutarlo. Su un versante opposto giudica a metro, o a sua spanna, l’idoneità della madre al maternage e la scarta quando non è pari agli standard. E dire che nell’un caso e nell’altro la risposta invocata dal bisogno è la stessa: è l’aiuto, il sostegno, l’assistenza, la condivisione.
L’allontanamento dalla madre è un taglio "capitale"; dunque vi si può ricorrere quando vi è un rischio capitale per il bambino. In questo scenario non si getta l’infamia preconcetta sulle decisioni che ci paiono mannaia, finché non si conosce tutto, tutto dall’interno, a scongiurare rischi di tragedie diverse. Ma è necessario sapere. E soccorrere, aiutare. Perché il problema è proprio qui, nella conoscenza, nella diagnosi, e vorremmo dire nella diagnosi differenziale fra il disagio psichico lasciato al crepacuore della solitudine e dello scarto e il disagio vegliato fra cuori attenti. Fra questi ultimi noi scegliamo di stare.