Una lacerazione, non uno squarcio. È indiscutibile che da ieri nella legge 40 si sia aperta una ferita, ma non si tratta affatto di una lesione mortale. La sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune parole dell’articolo 14 – piuttosto ermetica nella inevitabile brevità delle otto righe di dispositivo divulgate in serata – concede non poco a chi ha avversato la norma che regolamenta la fecondazione assistita in Italia ma lascia pressoché inalterata la griglia di garanzie per la salvaguardia dell’embrione che il legislatore aveva saggiamente predisposto in modo che si intrecciassero l’una all’altra. Insieme erano state pensate, insieme si potevano far cadere, come un castello di carte: ma la Corte, significativamente, non ha voluto farlo. Varando la legge 40, cinque anni fa, il Parlamento mostrò infatti di aver chiaro un dato di fatto: l’embrione è vita umana, e come tale – Costituzione alla mano – va tutelato. La Consulta, che della Carta fondamentale è massima interprete, ha tenuto conto di quella ratio così trasparente da una lettura serena dei 18 articoli della legge. E ha lasciato intatti i paletti. Tutti tranne uno, nient’affatto secondario ma che da solo non fa collassare la struttura varata dalle aule parlamentari con un voto trasversale e largamente maggioritario, uscita senza conseguenze dal giudizio di quattro referendum abrogativi nel giugno 2005.Dalla legge sparisce il limite massimo di tre embrioni realizzabili in provetta a ogni ciclo, così come viene meno l’obbligo del loro «unico e contemporaneo impianto ». In tutto cadono sotto le forbici dei giudici undici parole in coda al comma 2 dell’articolo 14. Un intervento senza dubbio preoccupante, perché ora è possibile produrre anche più di tre embrioni, come esigono i fautori della diagnosi preimpianto che puntavano a poter disporre nei propri laboratori di una gran quantità di vite umane in germoglio tra le quali scegliere quella desiderata. Ma degli embrioni creati e non impiantati che cosa si intende fare? In attesa delle motivazioni della sentenza, la domanda resta solo apparentemente senza risposta. La parte dello stesso comma lasciata indenne prescrive infatti che il numero di embrioni da formare sia «quello strettamente necessario». Non solo. La Corte ha esplicitamente salvato le parti della legge che vietano crioconservazione, soppressione ed eliminazione degli embrioni dopo l’impianto (la cosiddetta 'riduzione embrionaria di gravidanze plurime'). Ma ha anche lasciato al suo posto il fondamentale articolo 13, che continua a vietare senza mezzi termini «ogni forma di selezione a scopo eugenetico». E allora, la 'bocciatura' della legge 40 dov’è? Ieri sera mentre ancora andava in scena il circo delle esternazioni ideologiche e acriticamente esultanti davanti a un verdetto che i giuristi più accorti stavano invece soppesando in tutti i suoi aspetti, iniziava ad affacciarsi la sensazione che il pronunciamento apra una fase di incertezza interpretativa. Ed è su questo fronte che occorrerà lavorare, per evitare che le parole della Corte vengano piegate da qualche operatore a vantaggio di applicazioni estensive non autorizzate dal contesto della norma. Il quadro dei centri italiani dove si pratica la fecondazione artificiale lascia credere che questo genere di avventurieri – per quanto rumorosi – possa restare ai margini.La relazione annuale sulla legge consegnata solo pochi giorni fa dal ministero del Welfare alle Camere mostra infatti che le cliniche italiane per la maternità assistita hanno acquisito uno standard di serietà ed efficienza proprio lavorando dentro le regole della legge 40, un vertice di eccellenza che certo non vorranno giocarsi per andare dietro le semplificazioni politiche e ideologiche della sentenza di ieri. La scienza medica vuole agire nella legalità. E la legge 40, malgrado tutto, parla ancora molto chiaro.