C’è chi nel centrodestra la invoca come se non gli fosse riconosciuta. E chi nel centrosinistra la evoca con allarme, come se l’avesse vista troppo all’opera. Strana giornata, ieri, in Parlamento e nei suoi dintorni per la «libertà di coscienza». Strana e rischiosa. Basta mettere in fila i fatti. Il segretario in carica del Pd, Dario Franceschini, ha in sostanza annunciato che sul «fine vita» e sugli altri temi eticamente sensibili quel partito riconoscerà al proprio interno libertà di coscienza, ma la disciplinerà severamente in sede di voto parlamentare: perché anche su questo sarà il partito, e non il parlamentare, a decidere. La prima applicazione di questa dottrina c’è stata a proposito dell’indagine che si svolgerà in Senato sui pericoli della pillola abortiva Ru486: Dorina Bianchi è stata messa nelle condizioni di rinunciare all’incarico di relatore nell’indagine che aveva ritenuto in coscienza di approvare. Il paradosso è che mentre avveniva tutto questo, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha fatto sapere di aver solennemente ribadito ai radicali, e per loro tramite ai parlamentari di centrodestra che due giorni fa si sono appellati al premier (tutti dichiarati avversari dell’equilibrato testo sul «fine vita» varato in Senato, tutti sostenitori a prescindere dell’opportunità di autorizzare la Ru486), che avrebbe garantito il diritto di ogni deputato «a esprimersi secondo coscienza». Perfetto. Solo che il Pdl non ha mai messo in questione questo diritto e che, oggi, gli unici parlamentari sotto schiaffo sono quelli che militano nel Pd e ritengono che in Italia non ci debba mai più essere un altro «caso Eluana» e che la Ru486 (che ha provocato decine di morti) non vada approvata a cuor leggero. Ma la libertà di coscienza (e di avveduto ascolto della scienza) è laicamente uguale per tutti. O no?