Non è facile governare un Paese – né una comunità né tantomeno un’impresa – nei tempi di crisi, perché generalmente si cade nell’errore di esasperare una sola dimensione della crisi (il Pil, o la finanza, oggi), dimenticando che ogni crisi grave è sempre multidimensionale. E quando si dimentica e non si vede qualcosa, normalmente lo si danneggia. Uno degli errori più comuni, e spesso molto gravi, è trascurare durante le crisi il ruolo essenziale del linguaggio simbolico, che soprattutto in questi momenti è un registro comunicativo essenziale, un linguaggio indispensabile quando si vogliono attivare le energie più profonde delle persone e dei popoli, senza le quali non si supera alcuna crisi. Minacciare allora di toccare le feste e le ferie è un altro errore comunicativo e simbolico. Infatti, oltre alle ragioni messe in evidenza nei giorni passati anche su queste colonne (in particolare ricordare che questa crisi è soprattutto crisi di domanda, e non di offerta), è essenziale tener presente che la festa non è soltanto tempo libero dal lavoro, ma è anche fattore fondamentale per la manutenzione del legame sociale, per la ri-creazione del sentimento collettivo e dell’appartenenza a un corpo e a un destino comune. Quest’anno in Portogallo hanno abolito alcuni giorni di festa, e amici portoghesi mi dicono che la popolazione ha sofferto di più per questo che per la riduzione della tredicesima. Ciò significa che la sofferenza collettiva per la cancellazione delle feste è di una natura diversa dalla sofferenza individuale dovuta alla riduzione del reddito: quando si cancella una festa la gente non soffre (solo) perché ha meno tempo libero, ma perché le arriva un segnale simbolico negativo, e preoccupante, che magari fa fatica a decodificare razionalmente ma che avverte a livello profondo. Sono convinto che sia un grave errore, economico e culturale, pensare alla festa come al tempo libero: questa è la lettura tipica degli economisti, ma non la più vera. Ci sono persone per le quali festa significa solo più tempo per stare a casa o per riposarsi; ma per la maggior parte della gente la festa è anche il momento per investire in capitali relazionali, simbolici, spirituali, civili, per donare e ricevere tempo nelle comunità e nella famiglia: tutto questo è molto più del tempo libero, è molto più dell’equivalente monetario di un giorno di lavoro. È grave pensare alla festa come tempo libero, ed è grave anche per il lavoro, che finisce per diventare tempo non libero, come lo era – ed è ancora – per lo schiavo. Il tempo investito nelle feste ha un effetto moltiplicativo e alimenta anche il tempo del lavoro. La grande cultura monastica, ad esempio, sapeva molto bene che senza festa (liturgia) il lavoro non funzionava, perché è nella liturgia e nella festa dove si riattivano e rigenerano le forze e i tessuti del corpo sociale e aziendale. Ogni cultura è stata creata ed è ancora ricreata (dove non è morta) anche dalle feste, e oggi la nostra cultura lavorativa soffre una grave indigenza di liturgie e quindi di capacità di creare legami forti e profondi. Più si attraversano tempi di crisi, più i responsabili di un Paese devono difendere a denti stretti, e possibilmente aumentare, le feste. Non si attraversa nessun "deserto" senza far festa assieme. Ogni buon imprenditore sa, ad esempio, che durante le crisi l’ultimo budget da tagliare è quello per le feste, poiché celebrare la vita in comune è la più potente energia quando la vita individuale e collettiva si fa dura. Quando invece si tagliano le feste, in un Paese o in un’impresa, si sta tagliando quel capitale immateriale che poi non c’è quando dovrebbe essere attivato per resistere e per lottare assieme. Questo lo sanno molto bene i grandi artisti, come Olivier Messien quando il 15 gennaio 1941, in una baracca dello Stalag di Goerlitz, in Slesia, eseguì per la prima volta con i pochi strumenti semi distrutti il suo splendido Quartetto per la fine del tempo, uno dei tanti concerti composti e suonati nei tanti lager e gulag della storia: per continuare a lottare, a sperare, per non morire. Ben diverso è quando i lavoratori, per la crisi che sta attraversando l’impresa, rinunciano ai pacchi di Natale: in questo caso questa "ferita" diventa una "benedizione" per tutti e ciascuno. Questi atti, però, richiedono una condizione per potersi attivare: che a rinunciare a qualcosa di importante sia anche l’imprenditore: le crisi sono importanti quando ricreano fraternità, oltre i ruoli e i diritti di proprietà, perché ci si senta accomunati da un destino comune. Ed è quanto manca oggi in Italia: sarebbe necessario, oltre che rispettoso della gente, che assieme alla proposta di ridurre ferie e feste (dopo aumenti di Iva, articolo 18, Imu...), si avanzasse qualche proposta seria di riduzione di stipendi pubblici milionari, perché la percezione di equità sociale è fondamentale se si vuol salvare la tanto evocata unità nazionale. La vera sfida oggi è ri-imparare a far festa anche collettivamente: la religione (da <+corsivo_bandiera>religo<+tondo_bandiera>, legare) sa molto bene il valore delle feste, come lo sa anche la grande cultura civile che ha vissuto guerre, dittature, pace, speranze sociali. Oggi lo stiamo dimenticando, perché troppo lontani gli eventi che le nostre feste ricordano; ma se non ri-impariamo a fare festa assieme, come comunità, come Paese e come Europa (chi sa quali sono le feste europee?), potremmo pure ridurre gli spread e il debito, ma non usciremo veramente dalle crisi del nostro tempo.