La capitale del Califfato è infine caduta, con le bandiere delle Forze democratiche siriane (Fds) che sventolano sulle rovine di una città martoriata da anni di crudele occupazione jihadista e poi dai continui bombardamenti della coalizione anti-Daesh. Alcune foto, con i peshmerga curdi che sventolano i loro gialli vessilli, rimandano alla caduta della Berlino nazista nel 1945, occupata dalle forze sovietiche. Identiche sono le distruzioni degli edifici e le sofferenze della popolazione civile, con migliaia di morti, feriti e un numero molto maggiore di profughi.
Ma le similitudini si fermano qui. Caduto il Terzo Reich, si poté ricostruire una nuova Germania, sia pure divisa, che ripudiava gli orrori del nazismo e che è tornata al centro del continente europeo. Raqqa, ora che sono state sgominate le milizie jihadiste e che i vertici del Califfato sono o morti o scomparsi in qualche tana del deserto, ritornerà solo a essere la periferia di un Paese lacerato e diviso come la Siria di oggi.
La notizia positiva è che, con la caduta di questa cittadina, tramonta definitivamente il sogno di uno stato islamico, che aveva eccitato e illuso decine di migliaia di musulmani attratti dalla brutale radicalità del suo messaggio del sunnismo fondamentalista. Ma la sua sconfitta non significa la scomparsa dell’ideale del jihad globale. Anzi, proprio il collasso territoriale di Daesh spinge molti dei cosiddetti foreign fighters, ossia i volontari accorsi da tutto il mondo a combattere per il califfo, a cercare di tornare nei Paesi d’origine. Con il rischio concreto di un aumento degli attacchi terroristici indiscriminati, a bassa intensità, come quelli che l’Europa e Nordafrica stanno da tempo sperimentando.
Ma l’aspetto più preoccupante è che, deludente tradizione del Medio Oriente, nulla è stato stabilito per il "dopo". Vinta la battaglia, sbaragliati "i cattivi", che cosa hanno intenzione di fare "i buoni"? In questo caso, gli attori della riconquista sono milizie a maggioranza curda, fortemente sostenute dagli Usa. Ma Raqqa non è mai stata e non può essere una città "curda". Che cosa si intende fare ora? Con chi tratteranno le milizie? Con il regime di Assad, militarmente vincente? O si faranno affiancare dalle forze arabe di opposizione, frammentate e deboli?
Contrastare il Daesh e i suoi militanti ha permesso in questi anni ad attori diversi e fortemente contrapposti di combattere assieme. Ma quando l’emergenza finisce, ritornano le vecchie divisioni e si rischia l’aprirsi di nuovi fronti di battaglia. Lo sanno bene gli stessi curdi, che negli ultimi anni avevano "occupato" territori contesi con gli arabi in Iraq. Proprio in questi giorni, in seguito allo sciagurato referendum per l’indipendenza lanciato dal governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), sono esplose le tensioni con Baghdad. Le forze irachene hanno mostrato i muscoli, obbligando i peshmerga a ritirarsi precipitosamente dalla città di Kirkuk, da sempre contesa fra le parti, e anche dal Sinjar, un distretto occupato dai curdi durante la guerra con il Daesh. Con gli iracheni si sono schierati l’Iran e la Turchia, ostili a ogni idea di Kurdistan indipendente, mentre Washington è rimasta palesemente spiazzata dalle tensioni, dato che sostiene entrambe le fazioni.
L’imperizia – o le ambizioni eccessive – del governo curdo di Erbil sono certo una causa di questo nuovo fronte di crisi. Ma, a un livello più profondo, ciò che manca nella regione è la capacità di percepire l’insicurezza e il disagio delle altre comunità etnico-religiose. L’indifferenza verso le ragioni dell’altro, allorché non collimino con le proprie.
In Iraq, come in Siria e ovunque in Medio Oriente, si possono vincere guerre e, talora, si riesce a fermare i conflitti. Tuttavia, sconfiggere il terrorismo non è un obiettivo militare, bensì politico, sociale, economico e culturale. E la pace è molto più che assenza di guerra; significa rimuovere le cause più o meno profonde di ostilità fra comunità che vivono sullo stesso territorio. Vittoria non è solo fare sventolare una bandiera sulle rovine di una scuola o di un ospedale. Ma anche, e soprattutto, sapere ricostruire quelle infrastrutture rendendole disponibili a tutti, indipendentemente da religione, lingua o appartenenza etnica. Da questo punto di vista, nel Levante, la pace è ancora lontanissima.