Mentre il mondo politico e imprenditoriale si preoccupa per lo "shopping" straniero delle nostre imprese e per i rischi di condizionamento della nostra economia, la mafia da anni lo fa concretamente, incamera e gestisce ricche aziende. E condiziona pesantemente l’economia locale e nazionale. Ma nessuno (o quasi) ne parla, nessuno si scandalizza più di tanto. Non ne parla la politica, non ne parla il mondo delle imprese o della finanza. Eppure i numeri parlano chiaro.
Proprio ieri sono stati confiscati beni per 700 milioni di euro agli eredi di Dante Passarelli, imprenditore legato al clan camorrista dei "casalesi". Nelle sue mani anche un azienda ex Cirio. Tre giorni fa altra confisca da 700 milioni a Giuseppe Grigoli, "re dei supermercati", imprenditore di Castelvetrano, collegato al boss latitante Matteo Messina Denaro. Gestiva i punti vendita della Despar. A maggio un altro "re dei supermercati", il catanese Sebastiano Scuto il 15 maggio viene colpito nel suo patrimonio per diverse centinaia di milioni di euro. È considerato "associato" a boss come Bernardo Provenzano e i fratelli Lo Piccolo. Ad aprile tocca addirittura a 1,5 miliardi confiscasti a Vito Nicastro considerato il "re delle energie" rinnovabili, dall’eolico al fotovoltaico, ritenuto in contatto sia con Messina Denaro che con i Lo Piccolo. E in affari con grandi società elettriche italiane e straniere. Per andare solo qualche anno indietro, nel 2010 sono stati ben 330 i milioni confiscati al reggino Gioacchino Campolo, anche lui imprenditore e "re" ma dei videopoker, legato alla ’ndrangheta.
Azzardo "legale".
Tutti imprenditori, dunque, tutti accusati, e in gran parte anche condannati a pene pesanti, per associazione a delinquere di stampo mafioso. Imprenditori e mafiosi, che si erano accaparrati ingenti patrimoni, gestendo importanti settori economici. E questo grazie ai soldi, alla protezione e ai decisivi contatti garantiti dai clan. Pezzi di economia italiana in mano a loro, dall’agroalimentare all’energia, dalla grande distribuzione all’azzardo. Aziende di successo, tanta occupazione, rapporti privilegiati col mondo politico e quello imprenditoriale. Tutto a posto, fin quando magistratura e investigatori intervengono a colpi di confische. Bravi servitori dello Stato, come il nuovo capo della Dia di Napoli, Giuseppe Linares che, dopo aver colpito duramente i patrimoni mafiosi a Trapani ha iniziato a colpire questa "zona grigia" in Campania, in particolare quella del clan imprenditoriale dei "casalesi".
Ma tocca solo a loro? Dove erano i politici che ora si stracciano le vesti per l’arrivo di spagnoli e francesi quando le italianissime mafie incameravano aziende su aziende? Dove era Confindustria? Certo non dimentichiamo la "primavera siciliana", l’impegno a denunciare il racket e a espellere chi paga. Ma non basta. Come ci ha più volte ripetuto Nino De Masi, imprenditore calabrese pulito e coraggioso, «ci sono imprenditori che pagano il pizzo e altri che lo incassano».
E viste le cifre delle confische non si tratta di poca roba. Servono dunque più attenzione, vigilanza e, soprattutto, pulizia. Niente giustifica il convivere e fare affari coi clan. Per molti, purtroppo, vige sempre il "pecunia non olet". Ma se si sospetta dei soldi stranieri perché accettare senza problemi quelli mafiosi? Non è così difficile capirlo.
Serve davvero un cambio di rotta. Anche sostenendo le imprese confiscate che dopo il passaggio in mano allo Stato – guarda un po’… – fanno fatica e finiscono quasi sempre in fallimento. Isolate dalle altre imprese, quelle che prima con l’imprenditore mafioso facevano ricchi affari. Questo, sì, sarebbe un sostegno all’economia italiana. Quella pulita e trasparente.