Per una di quelle tragiche ironie della storia, le proteste e le repressioni di questi giorni cadono nel trentennale della creazione della Repubblica islamica in Iran. Nata sulle ceneri della tirannica monarchia imperiale dei Pahlavi e sul sangue delle migliaia di uccisi dalla polizia dello scià. Quando pochi mesi fa a Teheran si è celebrata la ricorrenza, le autorità non immaginavano di dover a loro volta disperdere, sparare e uccidere i propri cittadini. La durezza delle forze di sicurezza sembra comunque aver avuto ragione sulla volontà dei giovani manifestanti di non piegarsi alle manipolazioni elettorali. La situazione, come del resto prevedibile, si va normalizzando: sono troppo poco organizzati i gruppi riformisti e troppo determinate le milizie ultradicali; spietati nell’uso del potere Khamenei e Ahmadinejad e timorosi di un bagno di sangue i leader moderati, come Mussavi, Khatami, Rafsanjani, che hanno invitato alla moderazione i propri sostenitori. La Repubblica islamica non cadrà quindi per via di queste proteste; anzi, potrà durare ancora molti anni. I regimi dittatoriali, si sa, hanno spesso dimostrato di possedere una grande 'vischiosità' politica e una tenuta basata sulla repressione e sul populismo clientelare. Tuttavia, con queste elezioni e con questa brutale repressione è morto il suo essere un sistema unico e particolare, caratterizzato da una sorta di potere duale, repressivo e illiberale da un lato, ma basato su di una rappresentanza popolare scelta dal popolo, dall’altro. Ora rimane solo il primo potere. A questo punto è perfino irrilevante sapere se i brogli – ammessi in parte dal Consiglio dei guardiani della rivoluzione – abbiamo ribaltato effettivamente il risultato elettorale. Gli ultra- radicali hanno in ogni caso agito per alterare la scelta popolare e represso con durezza le proteste, una volta palesatosi la manipolazione. Se è comprensibile che i gruppi sociali, economici e paramilitari che hanno conquistato il potere con la presidenza di Ahmadinejad siano ricorsi ad ogni mezzo per evitarne la sconfitta, più enigmatico è stato il comportamento del rahbar (la Guida suprema), l’ayatollah Khamenei. Era ben noto quanto questi detestasse i riformisti e li considerasse un pericolo per il regime islamico. Ma finora aveva sempre cercato di proporsi come l’arbitro fra le opposte fazioni, il decisore che mediava e frenava gli eccessi dell’una o dell’altra parte. Nelle oscillazioni del pendolo politico iraniano, Khamenei amava proporsi come il perno centrale. Gli eventi di questi giorni hanno spazzato via questa sua immagine. Egli ha scelto una parte contro l’altra. Non più il punto massimo di mediazione, ma il difensore di una fazione contro l’altra. Alcuni dicono che il rahbar sia ostaggio degli ultra- radicali. Un’etichetta forzata. La politica a Teheran è sempre più complicata di tali schematismi. Ma, certo, Khamenei ora è più debole e la sua carica ulteriormente svilita. Ancor più grave per la tenuta del sistema di potere islamico sono le divisioni fra le correnti dei pasdaran, la frattura nettissima interna al clero sciita – con un numero crescente di religiosi ormai ostili alla Guida – o la rottura fra Khamenei e molti dei conservatori tradizionali, fra cui diversi dei suoi uomini più fidati. Poco importa che Khamenei abbia deciso di schierarsi senza riserve con Ahmadinejad perché timoroso che un nuovo governo riformista potesse mettere in pericolo le basi della Repubblica islamica o solo per cercare di difendere il proprio potere personale. Quanto risulta evidente è che la maschera è ormai caduta, e con essa le illusioni di chi sperava ancora di liberalizzare il regime dall’interno, partendo da quel consenso popolare che lo stesso fondatore, l’ayatollah Khomeini, considerava necessario.