venerdì 31 luglio 2009
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Mano a mano che si avvicina il 2011, cresce l’attenzione per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, non senza l’aggiunta di qualche nota critica da parte di alcuni commentatori. Del resto – come ha ricordato il sociologo francese della politica, Marc Lazar, citando a sua volta Giuseppe Galasso – «l’Italia è una nazione difficile e, dunque, non può sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche» . Nel 1961, l’anno del centenario, l’evento fu ricordato senza polemiche, secondo un indiscusso punto di vista risorgimentale. Tra gli altri cimeli, ne fa fede un libretto curato dall’Ente nazionale biblioteche popolari e scolastiche, consegnato agli studenti dei ginnasi, e che poi ho conservato gelosamente nella mia biblioteca. Oggi quel testo, I Grandi fatti che portarono all’Unità (firmato Alberto M. Ghisalberti e da Grazia Dore), è utile per marcare le differenze culturali con il presente. Solo cinquanta anni fa la storiografia (quasi una leggenda) risorgimentale era indiscussa, e ricapitolava nell’unità della nazione, tutta intera la storia italiana. Oggi non è più così: rispetto alle glorie e ai dolori di Garibaldi e Mazzini, si sono fatti strada dubbi e domande, dalle cui risposte si cerca un senso più profondo alla realtà di un Paese unito. Quando ad esempio – come è stato giustamente osservato – aumenta la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud; quando la vita nelle sterminate periferie diviene dimenticata sofferenza civile; quando i percorsi formativi dei giovani in molti luoghi del Paese vengono privati di una ragionevole speranza di futuro; quando in zone anche estese, prevale il controllo criminale rispetto a quello dello Stato etc., c’è da chiedersi se per celebrare l’Unità nazionale, bastano le memorie dei fatti d’arme di un Risorgimento pur considerato nella sua massima estensione, e cioè dai primi moti dell’ 800, fino alle battaglie della Resistenza al nazi- fascismo. Se è giusto privilegiare le storie militari, rispetto a quelle civili. Insomma se abbiano unito di più le armi, o le virtù civili delle popolazioni prima divise e poi unite in unico Stato. In realtà negli ultimi cinquanta anni la percezione della storia è profondamente cambiata. Prima la storia diplomatica e, quindi, delle guerre, era ritenuta l’unica ed indiscussa intelaiatura per la ricostruzione del passato. Adesso non è più così, e per rendersene conto basta andare in una qualsiasi libreria e scorrere i titoli degli scaffali della sezione della storia. I libri che raccolgono i dati sociali delle popolazioni, e che raccontano le condizioni di vita degli uomini di epoche e di luoghi diversi, sono sempre più accattivanti e numerosi. E molti sono quelli che raccontano l’evoluzione sociale e culturale degli italiani. Chi lo volesse, potrebbe trovare in quelle pagine, le sofferenze patite dalle popolazioni contadine per il passaggio degli eserciti e per le guerre. Oppure la storia dell’educazione e della scuola. Quella della sanità e dell’industria. Per non dire poi di quella più strettamente culturale ( linguistico- letteraria) e religiosa. Questo patrimonio di storie vissute, molto più delle disgrazie delle guerre tanto evocate, costituisce il terreno di quel riconoscimento reciproco che sostanzia l’unità di un popolo in uno Stato. È la storia sociale ricca di sofferenze e di speranze, di progressi e anche di arretramenti, quella che ci consente di dirci italiani, e di guardare con occhi più sereni al nostro passato di guerra e di pace.
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