L’altissima povertà di Francesco è stato qualcosa di unico nella storia. Un amore folle, assoluto, totalmente imprudente, l’anti-buonsenso. Un rifiuto radicale del denaro e della ricchezza che ha generato la più profonda comprensione della natura dell’economia.
All’inizio della vocazione di Francesco c’è il denaro. Nella sua ultima vendita «appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi, secondo la sua abitudine, vende tutta la merce, e, felice mercante, perfino il cavallo! Sul cammino del ritorno, libero da ogni peso, pensa all’opera cui destinare quel denaro» (Celano, “Vita Prima”, 333-4). Libero da ogni peso: la vendita di tutti i suoi beni è vissuta dal giovane Francesco come liberazione da ogni peso. Felix mercator: Francesco si libera di poco perché vuole tutto. Non si era mai visto un tasso d’interesse più alto. Quando il prete di San Damiano rifiuta il suo denaro, Francesco, «vero dispregiatore della ricchezza, lo getta sopra una finestrella» (335).
Nella Regola del 1221 Francesco ci dice in che senso era un «vero dispregiatore della ricchezza». Lì, come ci ha spiegato Paolo Evangelisti (che ringrazio) nel suo saggio fondamentale “Il denaro francescano tra norma e interpretazione”, il rapporto dei frati con la moneta occupa un posto centrale: «Nessun frate in nessun modo prenda con sé o riceva da altri o permetta che sia ricevuta pecunia o denaro... poiché non dobbiamo avere né attribuire alla pecunia e al denaro maggiore utilità che ai sassi» (Regola non bollata, Cap. VIII). Denaro e pecunia, cioè monete e ogni bene con un valore di scambio.
I frati vengono presto definiti come uomini «estranei al denaro». I francescani non avevano soltanto il divieto di ricevere monete: non potevano nemmeno toccarle con le mani, neanche con un pezzo di legno, né portarle nella bisaccia o nel cappuccio. Come se la moneta fosse cosa impura. Un rifiuto dunque radicale, totale, assoluto. I primi francescani commentatori della regola di Francesco (Ugo di Digne, Bonaventura, Olivi...) si soffermarono molto sul divieto di ricevere e maneggiare denaro perché lo consideravano un elemento fondamentale dell’identità francescana, un attributo essenziale della natura del loro carisma. Nelle prime generazioni di francescani l’estraneità al denaro e alla pecunia fu totale, radicale, incondizionato: come Francesco interpretò il vangelo sine glossa (alla lettera), anche quei francescani cercarono di interpretare Francesco sine glossa. E lo salvarono.
E così, mentre il denaro invadeva le città europee, mentre i laici francescani maneggiavano monete tutti i giorni, i monasteri continuavano a crescere nelle loro proprietà, le chiese e le cattedrali risplendevano per la loro magnificenza, i francescani restarono con tutte le loro forze aggrappati alla guglia dell’altissima povertà, e ne fecero il loro primo prestigio. La credibilità pauperista intesa come separazione dal denaro divenne il grande obiettivo del movimento francescano. Tutto andava sacrificato pur di custodirlo, perché era chiaro che la profezia francescana svaniva se svaniva l’altissima povertà tradotta come vita non-monetaria. A cominciare dall’abito, cui Francesco nella Regola aveva dedicato una attenzione specifica (di «prezzo e colore vili»). L’abito non fa il monaco, ma l’abito fa il frate: «E tutti i frati portino vesti umili e sia loro concesso di rattopparle con stoffa di sacco e di altre pezze» (cap. II). Non solo i conventi non dovevano possedere nulla, ma nelle loro chiese, sobrie nell’architettura, negli arredi e dai campanili non turriti, non doveva esserci alcun raccoglitore per le monete. Un’ossessione per il denaro, potremmo anche dire, che coinvolgeva anche il lavoro dei frati.
Leggiamo sempre nella Regola: «E i frati che sanno lavorare lavorino ed esercitino quel mestiere che già conoscono... E per il lavoro prestato possano ricevere tutto il necessario, eccetto il denaro» (VII). Perché? Quale la ragione di questo distanziamento assoluto dalla moneta? Non è semplice rispondere, perché nel cuore dei grandi carismi si trova un velo che rende imperfetta la visione della loro intimità più segreta. Qualcosa però si può intuire, soprattutto esplorando la tradizione dei primi secoli del francescanesimo. Fra Bartolo da Sassoferrato, ad esempio, ci offre qualche elemento. Nel ribadire che il frate che lavora ha diritto alla ricompensa, non esclude solo la ricompensa in moneta, esclude anche la possibilità di stipulare un contratto per fissare l’ammontare della ricompensa: «Purché non stipulino un contratto o un accordo avente a oggetto una mercede» (citato in Evangelisti, p.258). Un secondo divieto, questo, che ci appare altrettanto bizzarro, soprattutto se visto con i nostri occhi. Ma una ipotesi la possiamo avanzare. Stabilire un compenso per il lavoro, prima cioè che il lavoro venga svolto, poteva portare il frate a fare del denaro la ragione del suo lavoro, la ricompensa poteva diventare la motivazione dell’opera. Abbiamo, forse, qui la prima radice della distinzione tra incentivo e premio: la ricompensa (non monetaria) poteva essere accettata solo se era un premio, non un incentivo. Il premio, infatti, è la ricompensa per un comportamento virtuoso che sarebbe stato effettuato anche senza il premio; l’incentivo, invece, è la ragione di una data azione, che non nascerebbe senza quell’incentivo. Il premio, quindi, è un incontro di reciprocità e di libertà, e richiede in chi agisce una componente essenziale di gratuità. Tanto che la ricompensa, per i francescani, non doveva essere certa, e al frate che non riceveva una ricompensa per il suo lavoro si raccomandava di ricorrere all’elemosina.
Questo ci consente di cogliere una dimensione essenziale anche del nostro lavoro, totalmente dimenticata. Gli antichi francescani nell’affermare che la ricompensa non deve essere la motivazione del lavoro ci dicono che il nostro salario oggi non può essere l’unica e forse neanche la prima motivazione del nostro lavoro; e quando lo diventa il lavoro perde libertà.
Un’altra chiave per entrare nel paradosso monetario francescano ce la offre fra Angelo Clareno, altro grande maestro francescano: «Io chiamo comunione la vita perfettissima dalla quale è estraneo ogni possesso personale». I beni umani, secondo il frate marchigiano, come le ricchezze degli angeli «non sono un bene delimitato, non sono un bene che occorre distribuire tra molti e dividerlo» (citato in Evangelisti, pp. 226-7). Qui siamo di fronte a un’altra innovazione teorica molto importante, forse alla prima definizione di quei beni che la teoria economica (Paul Samuelson) chiama “beni pubblici”, che sono una specie di beni comuni. La prima caratteristica dei beni pubblici è infatti la indivisibilità perché, come accade con la sicurezza nazionale o con l’atmosfera (tipici beni pubblici), non è possibile dividere il bene e assegnarlo ai diversi consumatori, perché tutti gli utilizzatori “usano” l’intero e lo stesso bene pubblico: «Perciò questi beni, rimanendo integri presso i singoli, rendono ugualmente ricchi tutti in modo che non danno motivi di appropriazioni individuali, soggetti a controversie o contese» (Clareno).
Eccoci arrivati al centro del nostro discorso. La rivoluzione francescana consisteva nel trattare i beni come beni pubblici e comuni: ogni bene è un comune, quindi un bene indivisibile e non appropriabile dal singolo individuo. Talmente pubblico da appartenere a tutti, e non solo alla comunità francescana. Torna quella fraternità cosmica del Cantico di frate sole, espressa anche in altri passaggi della Regola e delle Costituzioni: «I frati, ovunque saranno, negli eremi o in altri luoghi, si guardino di non appropriarsi di alcun luogo e di non contenderlo ad alcuno» (Regola, VII).
Quel divieto assoluto di maneggiare denaro e di essere proprietari di qualcosa (sine proprio) era dunque una strada maestra per custodire questa dimensione “pubblica” essenziale di tutti i beni. È l’apoteosi della gratuità: rinunciare a una capacità e libertà umana (usare denaro), che è parte del repertorio di ogni essere umano adulto, per farsi garanti e custodi di un valore comune. Francesco come sentinella della vocazione comune e non appropriabile dei beni della terra: «Bramano di non possedere nulla, nulla avere di proprio, ma possedere, insieme, tutto» (Clareno).
Ma c’è ancora qualcos’altro da dire. I francescani della prima e seconda ora, rinunciando al prezzo scoprirono il valore delle cose. Divennero esperti di stime economiche, di tassazione, di mercato, consiglieri dei politici per il debito pubblico, teorici della moneta. Pochi come i francescani del Duecento e del Trecento scrissero di economia e persino di finanza. Quella “siepe” fece loro vedere l’infinito. Proprio questa dimensione assoluta di gratuità – “la fonte non è per me” – fece dei francescani dei grandi esperti e conoscitori della moneta e dell’economia, teorica e pratica. Non essendo utilizzatori divennero maestri di denaro: la grande generatività della vera castità. E col passare dei secoli, osservando i mercanti veri capirono che il denaro non è solo quello di Giuda, perché nel Vangelo ci sono anche i due denari del Buon Samaritano, che maneggiava denaro e così poté usarlo a servizio della fraternità. Non usando il denaro capirono il denaro, rinunciando radicalmente alla ricchezza capirono la ricchezza, essendo mercanti per il regno dei cieli capirono i mercanti dei regni della terra – e alcuni di questi mercanti capirono e continuano a capire Francesco.
Le centinaia di Monti di Pietà che i francescani minori fondarono (senza esserne proprietari) dalla seconda metà del Quattrocento non sarebbero nati senza quella fedeltà totale al non uso del denaro. Quelle banche diverse furono l’approdo maturo di quell’antica castità, di quella loro enorme competenza fiorita dal divieto non negoziabile di maneggiare moneta: non potendola maneggiare per se stessi la maneggiarono per i poveri, usarono la loro competenza solo per il Bene comune. Nell’inno in versi composto in occasione della morte del francescano Marco da Montegallo così leggiamo: «Grazie a te splendono i Monti nelle illustri città d’Italia. Fondasti i Monti di Pietà per sollevare i poveri» (Vicenza, 1496).
Se nel 2020, ottocento anni dopo la Regola non bollata, migliaia di giovani economisti si sono ritrovati ad Assisi attorno a Francesco, se hanno potuto ripetere “tutti i beni sono beni comuni”, è perché per secoli i francescani hanno fatto il possibile e l’impossibile per salvare la loro altissima povertà, per non perdere il loro tesoro più grande: la credibilità pauperista. Hanno subìto condanne ecclesiastiche, conosciuto eresie, mille fallimenti e accuse di ingenuità, ma soprattutto hanno tenuto fede al dato più paradossale del loro carisma. E così hanno salvato se stessi e tanti altri. Ciò che rende vive e durature le profezie è la resilienza alle sagge raccomandazioni della prudenza. I carismi sono salvati solo da chi li vive sine glossa, da chi ne custodisce le domande evitando che siano risucchiate dalle ottime ragioni del buonsenso.
l.bruni@lumsa.it
(5 - continua)