Quando la storia si ripete, diceva Karl Marx, la prima volta è una tragedia, la seconda è una farsa. Ma nel caso delle recenti elezioni presidenziali in Ucraina il detto va forse rovesciato. Nel novembre del 2004 la vittoria del candidato filo-russo Janukovich fu una farsa, subito smascherata dalla rivoluzione arancione, con migliaia di dimostranti che scesero in piazza denunciando massicci brogli fino ad ottenere l’annullamento del voto. Adesso Viktor Janukovich si è preso la rivincita e questa volta può essere una tragedia. Con lui l’Ucraina torna al passato, affidandosi ad un grigio ex burocrate comunista e ricadendo nella sfera d’influenza di Mosca, da cui aveva cercato confusamente di sottrarsi in questi ultimi cinque anni. Secondo molti commentatori, il voto di domenica segna la fine della rivoluzione arancione. In realtà, 'lo spirito di Maidan', dal nome della piazza centrale di Kiev dove si riunivano i manifestanti filooccidentali, era già morto da tempo, sepolto sotto un cumulo di liti e divisioni tra i due massimi esponenti della rivoluzione colorata: lei, Julia Timoshenko, la premier dalla lunga treccia bionda arrotolata sul capo, affascinante ed ambiziosa, e lui, Viktor Jushchenko, il presidente dal volto butterato a causa della diossina fattagli ingerire da servizi segreti stranieri (ma di facile identificazione). Jushchenko, velleitario e screditato, è stato sonoramente battuto già al primo turno elettorale del 17 gennaio. La bella Julia, soprannominata 'la tigre', ha tirato fuori gli artigli e nel ballottaggio di domenica scorsa ha compiuto una grande rimonta, non sufficiente però a colmare il distacco con l’avversario. Sarà sempre leader, ma dell’opposizione. Difficilmente potrà invitare i suoi sostenitori a protestare contro l’esito del voto, giudicato «trasparente e onesto» dagli osservatori internazionali dell’Osce, che hanno definito le elezioni ucraine «un impressionante esempio di democrazia». Ed anche la Ue s’associa ai complimenti. Espulsa dalle stanze del potere, la rivoluzione arancione continua a vivere nella società, contrassegnata da una grande libertà d’opinione, a tal punto che i più famosi giornalisti di Mosca oggi lavorano a Kiev. Se Janukovich ha vinto deve dire grazie alla rivoluzione colorata che ha reso l’Ucraina molto diversa dalle altre Repubbliche ex sovietiche, monolitiche e autoritarie. È l’effetto paradossale della democrazia. C’è da augurarsi che l’ex burocrate comunista lo tenga presente quando s’insedierà alla Bankova, il palazzo presidenziale di Kiev. Ci è arrivato sommando i consensi del suo tradizionale serbatoio russofono, nelle regioni orientali dell’Ucraina al voto degli scontenti per il caos politico ed economico sempre più grave. Dal 2005 il Paese ha cambiato quattro governi ed ha vissuto sotto lo spettro di elezioni anticipate. Nell’ultimo anno la moneta ucraina si è svalutata del 50%, il Pil è caduto del 15% e la disoccupazione ha toccato il 20%. Il programma di Janukovich è molto generico: promette stabilità, lotta alla corruzione e più ampie garanzie sociali. L’Ucraina però ha bisogno di riforme strutturali, senza le quali il Fondo monetario non è disposto a concedere prestiti (prima delle elezioni ha sospeso una trance di 3,8 miliardi di dollari). Ed ogni mese va in scadenza la fattura del gas russo pari a 800 milioni di dollari. Janukovich vorrebbe trattare con Mosca per ottenere il gas a prezzi più bassi. Ma Gazprom, il colosso russo dell’energia, ha già fatto sapere che gli accordi faticosamente siglati con Kiev non si toccano. Da oggi l’Ucraina sarà un po’ più vicina a Mosca, però Janukovich (che ha avuto la sfrontatezza di rivolgersi in russo nel suo primo discorso post-elettorale) non si faccia illusioni: gli affari sono affari.