Ormai da una decina di anni, l’espressione abusive constitutionalism è entrata nel lessico dei giuristi, nell’ambito del dibattito sull’arretramento della democrazia, in atto in tutte le parti del mondo, dopo la grande espansione nel post-1989. Con essa, si vuole indicare l’utilizzo "abusivo", da parte di una maggioranza politica, della Costituzione, che da strumento di limitazione del potere, come è stata fin dalla fine del Settecento, diventa strumento per la legittimazione di un potere senza limiti.
L’adozione di una nuova Costituzione, o la modifica di quella esistente, a colpi di maggioranza, da parte di un presidente o di un’assemblea eletti dal popolo, rappresenta ormai nel XXI secolo uno dei principali canali di instaurazione di regimi autoritari: i colpi di Stato militari sono in ribasso, e i nuovi autocrati preferiscono nascondersi dietro la "facciata" delle Costituzioni, il cui significato, però, muta profondamente. Lo abbiamo visto accadere in Venezuela, in Ungheria, in Turchia.
È in questo quadro che occorre leggere anche la vicenda costituzionale tunisina, che vede il Paese chiamato a votare il 25 luglio in un referendum sulla proposta di una nuova Costituzione, voluta dal presidente Saïd, che dovrebbe sostituire quella approvata il 27 gennaio 2014 da una Assemblea costituente. Ci sono però, in Tunisia, alcune aggravanti che spingono all’estremo il carattere "abusivo" dell’intera operazione. Innanzitutto, il processo costituente si sta svolgendo in presenza di una dichiarazione di stato di emergenza, compiuta dal presidente stesso il 25 luglio 2021, attraverso una forzatura della Costituzione del 2014. In questo ambito, con un Parlamento dapprima sospeso, poi sciolto, il Presidente è andato concentrando nelle sue mani, a colpi di decreto, tutti i poteri, fino a modificare la composizione dell’autorità indipendente per le elezioni e a rimuovere numerosi giudici.
Inoltre, il testo è stato elaborato nel segreto da un ristretto gruppo di persone nominate dal presidente, in mancanza di qualsiasi trasparenza e partecipazione popolare. Al punto che, dopo la prima pubblicazione il 30 giugno, sono state apportate modifiche sostanziali, denominate come «correzioni» per far fronte alle critiche più gravi, ed è stato ripubblicato, «corretto», l’8 luglio. Che differenza con il lungo, tortuoso, sofferto, tumultuoso processo costituente popolare degli anni 2011-2014, condotto nella dialettica tra rappresentanti eletti e movimenti della società civile!
Se si guardano i contenuti, poi, l’involuzione costituzionale tunisina è ancora più evidente. Non solo punti chiave, come quello del carattere religioso o laico dello Stato, o i limiti ai diritti, che avevano travagliato l’Assemblea costituente sono risolti con un colpo di penna. Ma è soprattutto la parte istituzionale a introdurre elementi di iperpresidenzialismo incompatibili con un regime democratico dotato di checks and balances, pesi e contrappesi. Né il Parlamento, né gli Enti locali, né la Corte costituzionale, né la Magistratura, appaiono come contropoteri rispetto alla figura presidenziale.
Tutti elementi che sono purtroppo assai familiari al costituzionalista comparatista, di questi tempi. In definitiva, benché il preambolo della nuova Costituzione tunisina proclami nettamente la volontà di isolamento del Paese (affermando che «rifiutiamo qualsiasi ingerenza esterna nei nostri affari interni»), essa non sfugge alle grandi tendenze globali, andando ad accrescere la nutrita famiglia del nuovo "costituzionalismo autoritario".
Costituzionalista, Università di Siena