L’ approvazione definitiva, con la sola opposizione dell’Udc, della legge che delega al governo di realizzare gradualmente la rimodulazione del sistema fiscale su base territoriale, chiude un capitolo, quello della discussione sul «se fosse opportuno introdurre il federalismo fiscale», e ne apre un altro, quello sul «come attuare questa complessa trasformazione». Il dibattito che ha accompagnato l’iter di approvazione della delega, compresi i numerosi confronti tra l’esecutivo di centrodestra e la conferenza delle regioni e degli enti locali (a maggioranza di centrosinistra), ha chiarito molti punti, ma solo l’esperienza concreta dirà se sia stato davvero risolto il problema fondamentale, che consiste nella possibilità che i cittadini e il bilancio complessivo dello Stato traggano concreti vantaggi da una maggiore responsabilizzazione delle amministrazioni a tutti i livelli. Inoltre, appare evidente che questa nuova attribuzione di poteri decentrati richiede una copertura istituzionale più efficace di quella fornita dall’attuale stesura del titolo V della Costituzione, che ormai da danni è fonte di interminabili conflitti di competenze. Si tratta di interrogativi alla cui risposta dovranno provvedere sia il governo, cui spetta l’emanazione dei decreti delegati, sia il Parlamento, cui spetta affrontare i nodi della cornice istituzionale. Sotto il versante più specificamente politico, quindi, si tratterà di vedere se reggerà la coesione dell’esecutivo e il sostanziale spirito unitario con la maggiore opposizione che si sono realizzati nell’approvazione della legge delega. Il clima pre-elettorale, che induce competizione anche tra alleati, ha inasprito il confronto tra il Popolo della libertà e la Lega Nord sulla questione della riforma elettorale sottoposta a referendum. Il fatto che ieri, in un giornata «federalista» che per i seguaci di Umberto Bossi avrebbe dovuto essere di massima soddisfazione, Roberto Maroni abbia sentito l’esigenza di minacciare «conseguenze inevitabili» sul governo in caso di approvazione dei quesiti referendari, dà la misura delle tensioni che si sono comprensibilmente innescate. Fino a due giorni fa era ritenuto assai probabile che la consultazione del 21 giugno fosse destinata a fallire, per il mancato raggiungimento del quorum necessario. Ma ora, dopo la dichiarazione di voto per il «sì» del premier Berlusconi, che si è andata sommare a quella del Pd, le possibilità che il referendum riesca nel suo intento iper-maggioritario sono aumentate significativamente. I due principali partiti si sono, di fatto e fino a prova contraria, schierati per questo. Tant’è che l’Udc di Casini accusa il partito di Franceschini di portare allegramente acqua al mulino del Cavaliere. La 'vocazione maggioritaria' apertamente perseguita dal Pdl apre un terreno di oggettiva competizione con la Lega. Tuttavia, una volta superato il test delle europee, soprattutto se sarà incoraggiante per ambedue le formazioni che compongono la maggioranza, questo confronto-scontro potrebbe tornare ad assumere caratteri più emulativi che di dura contrapposizione. L’interesse della Lega all’emanazione dei decreti sul federalismo fiscale e il comune impegno a dargli il necessario sfondo istituzionale rappresentano un vincolo ancora piuttosto forte. Anche la maggiore opposizione, che dovrà verificare in un congresso non facile i risultati delle europee, ha l’interesse a partecipare da protagonista al processo di riforme, il che spiega l’atteggiamento di attesa promettente che ha adottato sul federalismo. Nonostante la tempesta referendaria, insomma, pare che si stiano determinando le condizioni politiche perché si giunga a un clima che permette di assumere decisioni a maggioranza ampia sulle tematiche istituzionali. Ma a causa della sequela di possibili «grandi accordi» regolarmente saltati alla vigilia della loro stipula resta difficile essere ottimisti.