giovedì 30 aprile 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
Negli ultimi decenni c’è stato un fiorire di epidemie ( o di pandemie, che ne è il superlativo): prima l’Aids, poi il carbonchio, poi la Sars. Nomi arrotati o sibilanti, densi di minaccia. Spuntarono anche la sindrome della mucca pazza e l’influenza dei polli, che sarebbe un nome buffo se non ricordasse quelle maschere sgangherate che rendono più sinistro il travestimento dei rapinatori. Di solito è l’Oriente che ci regala tiepide ondate di febbri, periodiche influenze sbocciate nelle sterminate porcilaie della Cina o nelle frenetiche stie della Thailandia. Ora il pericolo viene dal Messico, paese mite e sornione, e si presenta con il grugno bonario del maiale. Causa delle epidemie è spesso la promiscuità: le patologie passano dall’uomo all’uomo ma anche dall’animale all’uomo, i loro invisibili agenti trovano incubatori inediti, si mescolano, si moltiplicano, s’incrociano, trasmutano: nascono ceppi nuovi di germi, virus, microbi, bacilli, in un tripudio di creatività brulicante. E tutti questi esserini, annidati nei confortevoli crogioli umani, viaggiano gratis in aereo, invadono il mondo, si differenziano, si ramificano, si stabilizzano e si abbarbicano, costituendo un aspetto inquietante della libera circolazione. Nel 1973, Emmanuel Le Roy Ladurie parlò per primo di malattie della globalizzazione, dovute all’unificazione microbica del mondo. Ma già nel 1347 dodici navi portarono dalla Crimea a Messina grano, topi e appestati: in poco tempo l’Europa fu invasa dalla più micidiale epidemia che la storia ricordi. Nel 1493 la caravella Niña, proveniente dal Nuovo Mondo, sbarcava a Lisbona un Nuovo Morbo, la sifilide: bastarono tre anni per portare alla prima unificazione europea, quella treponemica. Nel 1981 l’Organizzazione Mondiale della Sanità si propose di conseguire la salute per tutti nell’anno 2000: per ironia della sorte, nello stesso anno scoppiava l’epidemia di Aids, che metteva in crisi non solo le ambizioni dell’Oms, ma anche una serie di costumi etici e sociali all’insegna della promiscuità. Cadute molte frontiere geopolitiche per gioioso e unanime consenso, siamo costretti a istituirne d’altro tipo: quarantene, isolamenti, cordoni sanitari, divieti di transito, d’importazione... È una rivincita del concetto antico di identità biologica e di chiusura. A livello di specie questo concetto è problematico perché ogni specie è sottoposta alle grandi derive dell’evoluzione, alle contaminazioni, agli incroci. Ma per il singolo l’imperativo di difendere il confine tra sé e l’altro ha molti vantaggi in termini di salute e di benessere e la sua infrazione può avere conseguenze esiziali. È vero che ogni individuo è una colonia: in ciascuno di noi trovano comodo albergo miliardi di microorganismi che, in industriosa e giovevole simbiosi con il nostro organismo, ci aiutano a vivere e ci sfruttano per vivere, quindi il concetto astratto e monolitico di identità biologica si stempera molto. Ma è anche vero che ciascuna di queste eterogenee colonie afferma con forza la propria differenza rispetto all’altro: l’io e il tu, sono distinti in modo netto e perentorio. I tentativi di invasione sono respinti da precauzioni macroscopiche e da difese microscopiche. Solo in certi momenti ( per esempio nel rapporto sessuale, che per questo è sempre a rischio) le porte della fortezza si aprono per far entrare l’altro. Non dimentichiamo che nel romanzo di H. G. Wells la guerra dei mondi fu vinta dai batteri.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: