«Cristo è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio, hanno avuto una dimensione e una valenza anche pubblica »: così Papa Benedetto XVI, il 19 ottobre 2006, nel discorso al Convegno ecclesiale di Verona. Il rilievo civile, pubblico della fede non è pretesa abusiva o addirittura una prepotenza dei credenti, ma esito coerente di una fede che esprime una visione di uomo e di società. Senza prevaricazioni, perché questo avviene – proseguiva il Papa – riconoscendo che «sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo ha portato una novità sostanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero, attraverso la distinzione e l’autonomia reciproca tra lo Stato e la Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio». La fede cristiana è sì intrinsecamente, originariamente, questione che interpella direttamente il singolo uomo, la singola donna – la salvezza non può essere altro che personale –, ma è ad un tempo, con la stessa forza, un fatto pubblico: chi la professa – semplice cittadino o politico investito di responsabilità rappresentativa – non può non modulare a partire da essa orientamenti e scelte, personali e pubblici. La fede è valore centrale, non accessorio trascurabile, opinione interlocutoria. La Chiesa, come ha ancora ribadito a Verona il Papa «non è e non intende essere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un duplice livello il suo contributo specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale pertanto, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere efficacemente riconosciuto e poi anche realizzato». L’intendimento della Chiesa trova interpreti consequenziali nei suoi figli, immersi nel mondo e chiamati a dare ragione pubblica della speranza – cioè della visione – che c’è in loro. Sono loro che devono, con intelligenza e competenza, senza ritrarsi dalla fatica che l’impegno può richiedere, elaborare proposte il più possibile coerenti, sulle quali cercare di coagulare il massimo consenso. Un’adesione non fideistica, ma sostenuta dalla ragione, dalla pertinenza ai problemi. È singolare che mentre prendono piede servizi espressamente dedicati al «lobbying», cioè a caldeggiare presso i parlamentari gli interessi di questa o quell’azienda, si obietti al fatto che qualcuno ritenga di farsi ispirare dalla propria fede. Insomma, pare proprio che la risposta migliore all’auspicio di Gianfranco Fini per leggi «non orientate da precetti di tipo religioso», l’abbia data il suo omonimo, presidente della Camera, che appena tre mesi fa ebbe ad auspicare «una laicità non certo aggressiva nei confronti della religione, aliena da degenerazioni laiciste ed anticlericali, aperta al riconoscimento del ruolo attivo e positivo della Chiesa nella società italiana. Una laicità dello Stato che deve però tenere conto che viviamo in un Paese la cui storia è inestricabilmente intrecciata alla vicenda del cristianesimo e della Chiesa romana, perché si possa minimamente immaginare un reciproco disinteresse » (G. Fini, Lettera a 'La Repubblica', 19/2/2009). L’auspicio è che i due si parlino. E mentre non ci illudiamo che l’Italia adotti il motto degli Usa «In God we trust» («Confidiamo in Dio»), non vorremmo tuttavia si cadesse nel suo contrario e che si intendesse per buona laicità la diffidenza verso Dio e chi in lui crede onestamente.