Già altre volte, su questo giornale, ho avuto modo di denunciare i limiti e i costi di un modello d’integrazione miope e angusto, sottolineando l’esigenza di un 'salto di qualità' capace di valorizzare il potenziale che l’immigrazione porta con sé. I caratteri di questo modello sono noti, ed efficacemente evocati dal luogo comune 'gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare'. Senza sottovalutare le esigenze di ricambio demografico delle forze lavoro, ribadite in questi giorni dallo stesso presidente dell’Inps, è evidente che l’occupabilità degli immigrati – addirittura sorprendente, se si guarda ai numeri degli occupati, costantemente in crescita da molti anni – sia in buona misura da ascrivere alla loro elevata adattabilità, alla disponibilità a svolgere qualsiasi lavoro, fino ad accettare 'regole d’ingaggio' che rasentano lo schiavismo. Nell’ultimo quarto di secolo, il nostro mercato del lavoro ha conosciuto una trasformazione straordinaria e irreversibile, che l’ha reso sempre più distante dal mito dell’omogeneità etnica, culturale e religiosa.
Dapprima circoscritto ai comparti più etnicizzati, il lavoro immigrato è divenuto via via più consistente, al pari del suo contributo alla creazione del Pil, fino a inaugurare una nuova era: una diversity transition in cui la 'diversità' andrà opportunamente riconosciuta e valorizzata, così da massimizzarne l’impatto per lo sviluppo economico e gli equilibri dei sistemi di welfare. Al tempo stesso però, l’eredità di questa imponente trasformazione è una condizione di svantaggio strutturale di cui molti immigrati sono vittime, insieme ai loro figli. Le famiglie straniere si concentrano nelle fasce a reddito più basso, e sono decisamente sovra-rappresentate tra quelle in condizione di povertà relativa e assoluta, nonché tra quelle che dispongono di un solo reddito o sono addirittura prive di alcun reddito. Sono, ancora, proporzionalmente più numerose tra quelle che percepiscono sussidi di sostegno al reddito anche perché a seguito della recessione hanno patito un forte arretramento della condizione reddituale. Infine, complice una dinamica immigratoria continua e sostenuta, negli ultimi anni sono cresciuti tanto gli stranieri inattivi (un dato fisiologicamente associato al processo di stabilizzazione), quanto quelli disoccupati (con la crescita del differenziale negativo nel confronto con gli italiani).
A ben guardare, si tratta di dati del tutto coerenti coi tratti che contraddistinguono il lavoro immigrato in Italia: la concentrazione nei profili manuali e a più bassa qualificazione, la segregazione occupazionale nei settori e nei mestieri meno ambiti, lo svantaggio retributivo, la sovra-qualificazione diffusa, la forte contaminazione con l’economia sommersa. Un quadro che non solo contraddice quei principi di equità e di meritocrazia sui quali si fondano le democrazie europee, ma produce contraccolpi troppo a lungo sottovalutati da una retorica che ha preteso di fondare il diritto ad immigrare proprio sul bisogno di lavoro duttile e a buon mercato. Secondo la consapevolezza che ci consegnano i paesi con una più lunga esperienza d’immigrazione, se un tempo la discriminazione etnica e la condizione di svantaggio delle famiglie immigrate potevano essere liquidati come problemi 'meramente' di equità sociale, oggi se ne percepisce l’importanza non solo per la tenuta della coesione sociale, ma per la stessa competitività economica. Nello scenario demografico italiano ed europeo, la popolazione con un background migratorio è infatti divenuta una componente strutturale delle assottigliate fasce d’età più giovani e un fattore cruciale per i processi di turnover della popolazione attiva.
La sostenibilità della società e dell’economia (e la stessa possibilità che gli immigrati 'pagheranno le nostre pensioni') si misura con la capacità d’accrescere tanto la partecipazione ai processi produttivi, quanto la produttività del lavoro, che a sua volta esige l’innalzamento della qualità complessiva dell’occupazione. In termini ancora più espliciti, il sotto-utilizzo del potenziale e delle capacità lavorative - degli autoctoni e degli immigrati - è un lusso che non potremo più permetterci. Alla luce di questa premessa, la disoccupazione che colpisce gli immigrati è particolarmente istruttiva in ordine a ciò - ovvero al molto - che resta da fare sul fronte delle politiche a sostegno dell’occupabilità e dell’attivazione. Quelle, ad esempio, rivolte alle donne con responsabilità familiari, che scontano ancor più delle italiane le difficoltà della conciliazione, a fronte di una domanda di lavoro che invece accentua le richieste di adattabilità. Ai più giovani, che sebbene abbiano tempi più rapidi di transizione al lavoro rispetto agli italiani - poiché escono prima dal sistema formativo -, incontrano poi maggiori difficoltà a stabilizzare la loro condizione occupazionale e sono più esposti al rischio di perdere il lavoro.
Ai lavoratori in età matura che, in un sistema che penalizza i percettori di basse retribuzioni, devono lavorare più a lungo per raggiungere una pensione dignitosa, dovendosi però confrontare con le discriminazioni che colpiscono i lavoratori 'anziani'. Ai Neet, assai numerosi tra i giovani stranieri, specie tra le donne (quasi 1 su 2 tra le 1534enni immigrate), per le quali l’esclusione dal mercato del lavoro può significare l’esclusione dalla partecipazione sociale tout court. Le politiche, infine, rivolte ai rifugiati e richiedenti asilo, che costituiscono uno straordinario banco di prova della capacità di governance dei mercati del lavoro e della volontà inclusiva delle imprese. Costoro, più di tutti, riflettono le fondamentali esigenze che interpellano le politiche di sostegno all’occupabilità.
Vuoi perché più esposti al rischio d’instabilità lavorativa; vuoi perché protagonisti di biografie itineranti e composite, che spesso hanno comportato costosi adattamenti sul fronte degli affetti e delle responsabilità familiari; vuoi, ancora, perché aperti alla possibilità di riconversione e mobilità professionale, rappresentano una sorta di idealtipo del lavoratore contemporaneo, chiamato a costruire il proprio destino professionale, e a dargli un senso, ricolmando quelle cesure – tra socializzazione e lavoro, tra sfera della produzione e sfera della riproduzione, tra appartenenza locale e mercati globali – che così fortemente hanno permeato di sé la società moderna. In virtù degli svantaggi cumulativi che spesso li caratterizzano – ma anche delle loro risorse d’intraprendenza e duttilità – immigrati e rifugiati sono coloro che più decisamente sollecitano istituzioni, imprese e società civile a fornire risposte che permettano a ciascun individuo di convertire le proprie risorse personali – uniche e irripetibili – in effettive opportunità di vita e di lavoro. Sono proprio tali caratteristiche a renderli, inaspettatamente, una presenza strategica nel percorso di ridisegno dei sistemi di accompagnamento al lavoro e protezione sociale.