La più grande ingiustizia è la vessazione del povero, dell’inerme, del piccolo, dell’innocente. Non è una dichiarazione dottrinale. È vicenda dei nostri giorni, che investe persone e comunità perseguitate per la fede e masse di diseredati in fuga da miserie e guerre. Questo abisso d’ingiustizia è sotto gli occhi del mondo, perpetrato giorno dopo giorno alle porte dell’Europa, di cui l’Italia è avanguardia geografica. Ultimo dato: la morte di molte centinaia di persone stipate in una carretta del mare, rovesciatasi nel canale di Sicilia. Questa immane ingiustizia viene da lontano – dall’inferno della fame, delle persecuzioni e delle guerre – passa per i 'corridoi della morte', lungo il deserto, e si consuma nel Mediterraneo, il mare che bagna le sponde meridionali dell’Europa, dei suoi popoli e della sua civiltà. Essa c’interpella nel soccorso da prestare e nell’infamia da combattere. Nel primo caso c’è una solidarietà di accoglienza da mettere in atto: un dovere umano e cristiano di dare rifugio a chi ha perso tutto. Nel secondo c’è un male da reprimere: una crudeltà che sta prendendo forma e nome di nuova schiavitù, sia per l’abietto sfruttamento di sciagure altrui; sia per i trattamenti inumani – violenze, abusi, stupri, estorsioni, repressioni, abbandoni, ricatti – cui vengono sottoposti i partenti; sia per la costrizione a trasferte logoranti e la costipazione su mezzi di trasporto carenti e abusivi, lasciati spesso alla deriva, ad alto rischio di infortuni e naufragi. Non per nulla scafisti e organizzatori di questi traffici della vergogna vengono detti schiavisti, mercanti di morte, avvoltoi che s’avventano e lucrano – in maniera massiccia, per l’ampiezza inarrestabile e crescente del fenomeno – sulle sventure altrui. Professionisti del crimine organizzato su scala internazionale, mossi da intenti non solo di profitto ma anche di potere, come gli esponenti dell’Is, che si macchiano di crimini e violenze efferate per la causa di un autoproclamato Stato islamico. Fermare questa immane crudeltà è un dovere morale di giustizia. Non meno vincolante del dovere di soccorso e accoglienza. È in atto una violenza organizzata che specula e destabilizza, opprime e reprime, perseguita e uccide. Non si può stare a guardare, rimanere inerti di fronte al male, dire non mi riguarda. L’indifferenza è complice. Non si pecca solo per azione. Si pecca anche per omissione. Ma – si dice – agire in questo caso, ottenere effetti di giustizia, implica l’azione di forza, il ricorso alla violenza. Se quella che abbiamo descritta è la situazione, lo chiede e motiva il doppio principio d’«ingerenza umanitaria» e di «legittima difesa», esigiti dalla
ratio ethica, fatta propria dalla Dottrina sociale della Chiesa. Il primo riconosce il diritto-dovere dei popoli e della comunità internazionale d’intervenire per arrestare e sanare gravi ingiustizie sofferte da popoli o gruppi al loro interno. Il secondo legittima il ricorso alla violenza difensiva, nel rigoroso rispetto di tre condizioni. Anzitutto aver esperito tutti i mezzi non violenti e meno violenti di pressione e dissuasione. Di qui il dovere primario d’intraprendere tutte le vie diplomatiche e multilaterali di risoluzione del crimine. In secondo luogo, la violenza aggressiva dev’essere in atto e non ipotetica o solo prevista. Da ultimo, la violenza difensiva dev’essere proporzionata: non può essere maggiore e causare più danni di quella aggressiva. Nel riconoscimento e nella verifica in atto e di fatto di queste clausole, il ricorso alla forza, per sottrare masse di diseredati a persecuzioni e vessazioni, non è solo lecito, è anche doveroso. Si può (evangelicamente) rinunciare a difendere se stessi, non il debole e l’innocente. Lo stesso comandamento di Dio che prescrive: «Non uccidere» (Es 20,13); precisa: «non far morire l’innocente e il giusto» (Es 23,7). Rinunciare alla forza senza avere altri mezzi efficaci per intervenire e assistere passivamente all’aggressione dell’innocente e del giusto non è scelta di pace. È ingiustizia omissiva e colpevole.