sabato 27 agosto 2011
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Quasi quattromila anni fa veniva stilato in Mesopotamia quel corpus di leggi che passa sotto il nome di Codice di Hammurabi, dal nome del sovrano babilonese che ne dispose la compilazione. In esso vi è l’embrione di quella concezione dei diritti umani che prenderà varie forme e percorsi – dalla Magna Charta a Hobbes a Kant – per non dire della Dottrina sociale della Chiesa – fino alla Dichiarazione universale del 1948 e alle varie agenzie delle Nazioni Unite. Ma noi sappiamo bene che queste regole, questi auspici non valgono quasi nulla per una particolare categoria di uomini e donne che negli ultimi anni sono saliti alla ribalta della storia come una sorta di soggetto sociale improprio, anche se in molti casi determinante e ampiamente strumentalizzato. Stiamo parlando degli immigrati e di come la loro particolare condizione viene spesso sfruttata e utilizzata. Dal disfacimento del regime di Gheddafi e dalle rivelazioni fatte al nostro giornale dal ministro degli Esteri Frattini ricaviamo – e non è un caso – una tragica conferma. La conferma che l’immigrato – limitiamoci per ora a quello africano, ma potrebbe tranquillamente valere per molti altri casi – subisce tre violenze che si succedono nella sua parabola.La prima gliela infligge il Paese d’origine. La violenza di una società quasi sempre autoritaria, corrotta, senza futuro, senza alcuna possibilità di lavoro, il motore cioè che spinge migliaia di infelici a cercare la via del grande Nord del mondo, con la sua promessa non si dice di un benessere garantito, ma quantomeno di condizioni umane migliori di quella non-vita che per molti di essi comporterebbe il rimanere nella terra natia. Una fuga quasi obbligata, una violenza che comporta la faticosa raccolta del denaro necessario per quel viaggio senza garanzie e senza diritti. Ma questo stato di necessità, questa urgenza che muove masse sempre più ampie di migranti è il perfetto carburante per l’uso strumentale che Paesi come la Libia (e non soltanto la Libia) sono riusciti a farne, infliggendo loro così la seconda violenza. È notizia recente che Gheddafi voleva inondare Lampedusa di profughi, far collassare strutture e meccanismi di accoglienza per ritorsione contro la partecipazione dell’Italia alle missioni Nato. Usare cioè la massa migratoria come mass weapon, arma impropria ma efficacissima sul piano della propaganda per controbilanciare le armi spuntate di cui disponeva sul campo di battaglia. Un cinismo criminale che oltrepassa ogni limite e ragione, barattando il destino di migliaia di incolpevoli con le proprie convenienze tattiche. E non è neppure un fenomeno di oggi: la minaccia di aprire i rubinetti dell’immigrazione incontrollata verso le coste italiane, la deportazione dei profughi rimpatriati in intollerabili lager nel deserto, la scomparsa di centinaia di infelici senza nome nelle acque mediterranee o nelle galere libiche sono stati pratica costante e subdolo strumento di pressione da parte di Tripoli, nonostante i ripetuti accordi siglati con il governo di Roma. Ma c’è una terza violenza sugli immigrati, non meno cinica e cieca, eppure largamente perpetrata qui da noi come lo fu nell’America di fine Ottocento nei confronti delle masse di italiani, greci, russi, polacchi che affollavano i porti atlantici con i bastimenti che partivano da Genova, Napoli, Brest, Liverpool: quella di utilizzarli ai fini della lotta politica, brandendoli ora come una minaccia all’identità nazionale, ora come spauracchio per l’ordine pubblico, ora – e questa è sotto il profilo dei diritti umani forse la più esecrabile – come sottocasta di cittadini, una versione moderna della schiavitù che si pretenderebbe di aver abolito definitivamente nel 1888, racchiudendoli nell’infame prigione concettuale che li contempla (e li usa) come categoria sociale e non come persone. Non sappiamo dire quale delle tre violenze sia la peggiore.
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