Anche in tempi di Wikileaks, la diplomazia cerca di lavorare sotto traccia. Ed è ciò che si può supporre e sperare stiano facendo in queste ore la Farnesina (malgrado le dichiarazioni di facciata del premier) e la commissione Ue, mentre in Libia la situazione rischia di precipitare. In realtà, le poche notizie che filtrano dalla cortina di censura imposta ai mezzi di informazione e di blackout operato sulle comunicazioni non permettono di capire la portata delle proteste popolari e della repressione governativa. Secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero cento le vittime nella regione di Bengasi, da sempre ostile al regime di Muhammar Gheddafi, mentre a Tripoli, mille chilometri più a Ovest, la situazione sarebbe tranquilla. In un Paese vastissimo, poco popolato (6,5 milioni di abitanti) e storicamente diviso tra tribù, i focolai di rivolta – sull’onda del contagio tunisino ed egiziano – hanno più difficoltà a saldarsi e la reazione dell’esercito sembra essere stata più decisa e brutale che a Tunisi e al Cairo. La presa sul potere del Colonnello è dimostrata dai suoi 41 anni al vertice, il più longevo dittatore dell’area mediorientale, capace di sopravvivere a un lunghissimo isolamento internazionale e di rinascere a leader del panafricanismo e partner presentabile dell’Occidente. Anche gli Usa ritennero, nel 1986, di provare a eliminarlo con i bombardamenti piuttosto che con un’improbabile sollevazione interna. Ma i tempi sono cambiati: Gheddafi si è “pentito” dell’appoggio diretto al terrorismo, risarcendo le vittime dell’attentato di Lockerbie, ha rinunciato alle armi di distruzione di massa, aperto a qualche concessione in tema di diritti umani. E, soprattutto, ha trasformato lo «scatolone di sabbia» di salveminiana memoria in un fornitore affidabile di energia. Ricompare qui lo stretto e, in questo momento, ancor più scomodo legame tra Roma e Tripoli. Dalla Libia (prima fonte di approvvigionamento) importiamo petrolio per 6,6 miliardi di euro e gas per 2,3 miliardi; molte nostre aziende chiave, a partire da Eni e Finmeccanica, hanno rilevanti commesse sul suolo africano. E, non ultimo, Banca centrale e fondo sovrano libici sono insieme i primi azionisti di Unicredit, tanto che la crescita nell’azionariato dell’Istituto fu in settembre tra le cause della rimozione dell’amministratore delegato Alessandro Profumo. Ma non c’è soltanto l’aspetto economico, come noto. Gheddafi, in cambio di sostanziose contropartite e dopo un cinico “apri e chiudi” delle frontiere, s’è impegnato infine a mettere il “tappo” ai flussi di migranti verso le coste siciliane. A quale prezzo, almeno in alcuni casi, lo testimonia la vicenda, documentata da Avvenire, degli eritrei respinti nel deserto e finiti nei campi dei predoni del Sinai. Dalle prime trattative fino all’intesa del 2007, con il governo Prodi, e al trattato di amicizia del 2008, con il governo Berlusconi, l’Italia ha scelto una comprensibile realpolitik nell’interesse nazionale, accompagnata da altri Paesi europei, desiderosi di entrare nella partita energetica. L’incendio, dunque, non può che preoccupare. Oggi, davanti alla sanguinosa repressione delle manifestazioni e alla luce della simpatia che hanno guadagnato le sollevazioni contro i despoti della regione, appare difficile schierarsi apertamente con chi dà ordine di sparare sui dimostranti. D’altra parte, non è nemmeno responsabile soffiare su un fuoco che può provocare danni enormi senza la garanzia che sia la vera scaturigine di un assetto migliore per il Paese. Né – ovviamente – ci si può fare sorprendere dagli eventi, fatta salva l’idea che le “ingerenze” vanno commisurate alla gravità dei fatti. Più che mai, quindi, serve un’azione incisiva dell’Europa. Con la prevedibilmente lenta e debole risposta Ue, sull’Italia ricadrebbe il dovere di far valere i suoi rapporti privilegiati con Tripoli. Invitare alla moderazione nel controllo delle proteste è la prima, doverosa mossa. Se poi la mobilitazione fosse rappresentativa di una spinta democratica, sensato sarebbe premere per autentiche riforme, sebbene sia noto che è il Colonnello ad avere il coltello dalla parte del manico. E che può schiacciare la rivolta minacciando di imporre un alto prezzo a chi voglia frenarlo dall’esterno.