giovedì 15 ottobre 2009
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Il conferimento del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom e Oliver Williamson non è stato considerato in tutta la sua importanza sotto tre profili. Anzitutto né la Ostrom né Williamson sono economisti in senso stretto – la prima è una sociologa, il secondo un giurista – pur se ambedue hanno elaborato teorie economiche e le hanno testate empiricamente. I lavori di Williamson inoltre prendono l’avvio da esperienze direttamente italiane e quelli della Ostrom confutano analisi tanto approssimative quanto frequenti sull’Italia. Infine, gli studi di ambedue rappresentano insegnamenti pregnanti per la nostra politica economica.L’Accademia svedese delle Scienze ha inteso, ancora una volta, dare un’indicazione forte sull’urgenza di superare la segmentazione e la frammentazione tra le scienze sociali: segnali in questo senso vengono inviati dal 1991, quando il Nobel venne conferito a due storici dell’economia. Guardando poi alla motivazione del premio a Williamson, ci si accorge che esso riguarda la teoria e la politica economica dei "costi di transazione", ossia di quanto costa (alle parti e alla società) qualsiasi transazione economica si faccia, pure quella che sembra gratuita in quanto definita con una stretta di mano. Pochi sanno o ricordano che le riflessioni del giurista Williamson (ha insegnato diritto privato e diritto commerciale in tutta la sua lunga carriera accademica) hanno avuto forte ispirazione dall’esperienza dei "distretti industriali" (intuiti ma non sviluppati in teoria da Alfred Marshall) cresciuti nell’Italia centrale ed adriatica, prima, e nel resto del Paese, poi. Williamson constatò come piccole e medie imprese italiane si riunissero in "distretti" per ridurre, sino quasi ad azzerarli, proprio i "costi di transazione" grazie alle relazioni di fiducia tra tutte la parti in causa. La motivazione del Nobel a Ostrom, invece, concerne il ruolo dei "corpi intermedi" (famiglia, collettività di piccole dimensioni, comunità religiose come la parrocchia) nell’allocare e sviluppare i beni comuni (suolo pregiato, diritti di pesca, ambiente urbano e rurale), smentendo, quindi, le teorie sul "familismo amorale" che dagli studi di Edward Banfield negli Anni Cinquanta spesso pervadono le analisi straniere della società, della politica e dell’economia italiana.Festeggiare Ostrom e Williamson per il loro premio sarebbe futile, però, se non se ne traggono ispirazioni di politica economica. Anzitutto, la centralità dei "corpi intermedi" (specialmente la famiglia) per la governance del bene comune: cosa fa la politica per tenere conto di tale "centralità", dove sono ad esempio i programmi di riassetto del sistema tributario per dare sostanza a tale obiettivo? Inoltre, la riduzione dei "costi di transazione" è stata presentata come una delle architravi del programma di governo. Indubbiamente, alcuni ministri, e specialmente quello della Funzione Pubblica, stanno operando in questo senso. Sembra necessario, però, uno scatto di reni in tutta l’azione di governo per cercare di smentire l’amara profezia dell’ufficio studi Bce secondo cui l’Italia sarebbe condannata ad una crescita economica mai superiore all’1,3% a ragione dell’invecchiamento demografico e delle troppe pastoie che ci siamo dati.
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