La cosa più importante è stata fatta. I naufraghi che da giovedì scorso vivevano in condizioni precarie sulla nave turca Pinar ed erano rimasti in balia di una querelle diplomatica apparentemente senza soluzione, sono finalmente usciti dal limbo di un’esistenza sospesa e sempre più a rischio. La decisione di accoglierli in Italia rende merito al nostro governo, che ha dimostrato senso di responsabilità nell’affrontare una vicenda che, nella diversità di interpretazioni possibili sotto il profilo giuridico, rischiava di degenerare. Il commissario europeo alla Giustizia e ai Diritti civili, Jacques Barrot, si barcamena: ringrazia l’Italia per l’intervento umanitario, ammette che il problema resta aperto e che altri drammi rischiano di ripresentarsi in futuro. E riconosce che la Ue deve esprimere una solidarietà più concreta ed efficace. Diventa sempre più evidente che nell’affrontare una realtà così marcatamente transnazionale, le politiche dei singoli Stati hanno il fiato corto. L’Unione – in molte occasioni inflessibile (e soffocante) nell’esigere il rispetto delle normative comunitarie, fino a vigilare sulla curvatura delle banane e la lunghezza dei cetrioli – continua a dimostrarsi latitante su tematiche che mettono alla prova le sue ambizioni di diventare una comunità di Stati e di popoli: come, nel caso, il governo concertato dell’immigrazione. È noto che bisogna fare i conti con i vincoli legati alle sovranità nazionali, ma L’Europa deve battere un colpo, dimostrare che c’è, impegnarsi a trovare urgentemente strumenti normativi e operativi adeguati, stabilire regole condivise e vincolanti che evitino lo scaricabarile. Ed è opportuno che l’offensiva diplomatica annunciata ieri da Maroni e Frattini nei confronti di Bruxelles venga rafforzata da un’«alleanza d’interesse» con i ministri degli Stati più esposti agli arrivi dall’Africa – Spagna, Grecia e Malta – per sollecitare misure adeguate da parte della Ue. Molta strada c’è da fare anche per rafforzare il partenariato con i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, che devono garantire interventi più efficaci contro il traffico di immigrati, sia per impedire le partenze illegali dai loro porti, sia per un pattugliamento più rigoroso delle acque territoriali. Su questo argomento abbiamo un grosso contenzioso in sospeso: nei prossimi giorni diventerà operativo l’accordo italo-libico che dovrebbe (il condizionale rimane d’obbligo, visto l’interlocutore) ridurre gli arrivi illegali da quel Paese. Peraltro c’è già chi assicura che i mercanti di uomini hanno già provveduto a cambiare itinerari e a spostare le basi di partenza in altri lidi nordafricani. Infine, non si può dimenticare che gli esodi verso l’Europa trovano il principale alimento nell’enorme divario tra le condizioni di vita nel Sud e nel Nord del mondo, a cui si aggiunge (con un’incidenza sempre maggiore) il peso dei conflitti che generano flussi crescenti di profughi. Coloro che attraversano il Mediterraneo sono i più giovani, i più intraprendenti, i 'meno poveri' che riescono a raggranellare le cifre necessarie per trovare un posto sulle carrette del mare. Sono i 'segnalatori' di quanto sta avvenendo in un continente di cui le cancellerie europee si occupano troppo distrattamente, ma che sta incubando milioni di vite disperate in cerca di riscatto. Conviene occuparsi in maniera più lungimirante di quello che questi 'segnalatori' evocano: se non per spirito di solidarietà, almeno per prevenire esodi ben più massicci di quelli attuali verso le nostre terre. Le quali devono fare i conti con gli effetti di una crisi economica molto seria, ma infinitamente meno grave dell’abissale povertà che attanaglia l’Africa.