venerdì 3 aprile 2009
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In questi giorni, come era prevedibile d’altronde, la stampa internazionale ha dato grande risalto al dibattito che ha preceduto e accompagnato il vertice del G20 a Londra, sull’opportunità di regolare le istituzioni finanziarie e di garantire un pacchetto di incentivi coordinato a livello globale. In questo contesto, l’Africa sembra essere come al solito emarginata nonostante, in linea di principio, tutti sappiano che una delle nobili guise per uscire dalla crisi 'economico-finanziaria' sia quella di garantire un sostegno ai Paesi in via di sviluppo, contribuendo alla ripresa del commercio internazionale. A questo proposito, Benedetto XVI si è fatto portavoce delle istanze del continente africano rispetto all’attuale congiuntura internazionale. In una lettera inviata un paio di giorni fa al premier britannico Gordon Brown, papa Ratzinger ha scritto che il vertice del G20 non deve dimenticare l’Africa, constatando che nella rosa dei G 20 il Sudafrica è l’unica nazione del continente a essere presente al summit londinese. «La situazione deve suscitare una profonda riflessione tra i partecipanti al summit – si legge nella missiva – dato che coloro la cui voce ha meno forza sulla scena politica sono precisamente quelli che soffrono di più degli effetti dannosi di una crisi di cui non portano la responsabilità». Per Benedetto XVI è necessario rivolgersi al multilateralismo delle Nazioni Unite e delle organizzazioni collegate «al fine di sentire le voci di tutti i Paesi e di garantire che le misure e i passi fatti ai vertici G20 siano sostenuti da tutti». Rilevando inoltre che la crisi economica minaccia la cancellazione o la drastica riduzione dei programmi di aiuto, specialmente per l’Africa, il Pontefice ha affermato che «soluzioni segnate da qualsiasi egoismo o protezionismo nazionale» vanno evitate per trovare una via d’uscita dalla crisi. Non si sa quanto queste parole abbiano smosso i Grandi della Terra per scongiurare quello che la stampa anglosassone ha definito come una sorta di «african turmoil» (disastro africano) rispetto alle conseguenze di una crisi che sta fortemente penalizzando il continente africano. Ieri, il premier britannico Brown ha parlato di 50 miliardi di aiuti ai Paesi poveri, una promessa che dovrà poi trovare attuazione concreta. Non è d’altra parte un caso che proprio nell’Instrumentum Laboris, in vista della seconda assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, venga evidenziato il malessere che attraversa il continente. Il documento rileva tra l’altro che «gli investimenti diretti stranieri rischiano di diminuire; le istituzioni finanziarie africane beneficeranno difficilmente di crediti dalle banche occidentali per fare, a loro volta, prestiti alle imprese e agli individui, così che ne risentirà l’economia reale; l’aiuto allo sviluppo rischia di soffrirne (...); a causa della recessione, sui mercati sviluppati la domanda di produzioni africane (in particolare di materie prime) potrebbe diminuire. Si impone pertanto una riflessione sul fatto che l’Africa (tranne il Sudafrica) sia esclusa dalla ricerca di soluzioni al sistema finanziario internazionale attuale». Dal G20 è arrivata una timida risposta: centinaia di miliardi di dollari al Fondo monetario, che dovrà poi decidere a chi e come distribuirli. E l’Africa rischia di restare in coda. Tutto ciò avviene dentro la grande pancia del continente, in un tempo segnato da nuove forme di colonialismo. Come ha indicato il Papa nella sua lettera al premier britannico, «questa stessa crisi ci insegna che l’etica non è 'fuori' dell’economia, ma 'dentro' e che l’economia non funziona se non porta in sé l’elemento etico». A riprova che anche Wall Street è terra di missione.
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