A questo punto devono dimostrare di essere diventati grandi.I due manager in sella a Generali, il capoazienda Giovanni Perissinotto e il "ministro degli Esteri" Sergio Balbinot, come lo chiamava l’ex presidente Antoine Bernheim, d’ora innanzi risponderanno ai milioni di portatori d’interesse che gravitano intorno al colosso assicurativo triestino – grandi azionisti, piccoli soci e semplici clienti – senza lo scudo protettivo di un presidente che nella storia recente della compagnia ha assunto spesso le fattezze di un 'padre'. Capace di attutire gli urti, certo, ma di sfumare anche le responsabilità.Oggi, a Trieste, l’assemblea dei soci sarà presieduta per la prima volta da Gabriele Galateri di Genola. Neanche un mese fa Cesare Geronzi ha rassegnato le dimissioni. Passaggio traumatico, quest’ultimo, nella storia centenaria delle Generali, in cui risuona l’eco di un ricambio generazionale al quale i sistemi chiusi dell’economia e soprattutto della politica in Italia sono piuttosto refrattari. Pur nell’epoca dell’"evaporazione del padre", anche a Trieste, negli ultimi decenni, le figure carismatiche di Bernheim prima e Geronzi poi hanno prodotto o tentato di riprodurre lo schema del comandante che indica la rotta, il presidente, e dei fidati timonieri, gli amministratori delegati, che se la sbrigano a governare la nave. Ma sulle Rive è soffiato in primavera un vento edipico che ha bruscamente interrotto una consuetudine imbellettata da reminiscenze asburgiche e diventata quasi tradizione.Addio al "vecchio padre", dunque. Per caratteristiche personali,
cursus honorum e necessità contingenti, Galateri si manterrà più defilato, lasciando ai due amministratori delegati nuovi e più ampi margini di manovra.Non si tratta, ben inteso, di una virata giovanilistica. Generazione cinquantenni, Perissinotto e Balbinot hanno sinora ben gestito la compagnia in Italia e sui mercati internazionali, con una forte espansione nell’Est Europa e in Asia, dalla Cina al Vietnam. Ma l’hanno fatto per certi versi "sotto tutela" o quanto meno godendo di un parafulmini in caso di tempesta, quando le saette arrivavano dai grandi soci, primo fra tutti Mediobanca. Ora è il tempo delle responsabilità dirette.Finora le Generali hanno potuto contare sulla solidità della gestione industriale, su un patrimonio immobiliare immenso e costellato di gioielli, sulla forte redditività del ramo Vita. Hanno perseguito una crescita organica senza operazioni straordinarie e quindi senza la necessità di aumentare il capitale, nemmeno per far fronte all’ultima grande crisi finanziaria. Nonostante ciò, il Leone ha generato meno utili dei rivali di sempre, Allianz e Axa, mentre il titolo da tempo non riesce a decollare.Ci sono allora almeno tre sfide da affrontare a viso aperto e senza alibi per il
top management: un ramo Danni dalle dimensioni ancora limitate, una presenza esile per la mole del Gruppo nell’asset management – dov’è più facile intercettare i cicli espansivi dell’economia e quindi dei mercati finanziari – e il consolidamento nel 'Nuovo mondo' orientale. Per vincerle, probabilmente, anche Generali dovrà assumersi la responsabilità di una ricapitalizzazione da grande compagnia mondiale quale è. Ma per realizzarla Perissinotto e Balbinot dovranno confrontarsi con l’ultimo padre simbolico ancora padrone: il primo azionista Mediobanca, che finora si è sempre opposto a un aumento di capitale per non diluire la sua quota di controllo (oltre il 13%) nel Leone. Anche Piazzetta Cuccia, tuttavia, è guidata oggi da un giovane Ad, il quarantacinquenne Alberto Nagel, che sull’eventualità di lasciar crescere la compagnia allentando il controllo è sembrato decisamente più morbido dei tetragoni predecessori.