La Cina è fin troppo vicina. L’improvvisa svalutazione dello yuan, e le turbolenze scatenatesi sui mercati nelle ultime settimane nel grande Paese asiatico, rischiano di riverberarsi anche sull’economia italiana, proprio mentre si colgono incoraggianti segni di ripartenza. Il 'contagio' potrebbe passare attraverso diversi canali, sebbene Pechino non sia ancora un mercato di sbocco importante per le esportazioni del Belpaese. Assieme allo yuan, infatti, sono crollate un po’ tutte le valute emergenti, facendo suonare l’allarme per diverse nazioni con cui l’Italia ha un discreto interscambio: ad esempio la Turchia, per non parlare della Russia, già colpita e affondata dalle sanzioni e dal crollo del prezzo del petrolio, e il Brasile. A seguito delle rispettive svalutazioni, le importazioni delle nostre merci in quei Paesi risulteranno evidentemente più care. «Un rallentamento delle economie emergenti era fisiologico, dopo la loro passata grande crescita, ma il calo è risultato maggiore del previsto, soprattutto per alcuni Paesi: Brasile, Russia e Cina», spiega l’economista Giacomo Vaciago, economista della Cattolica e presidente di Ref Ricerche. «Sicuramente ha generato panico sulle Borse la condotta – l’ho definita da dilettanti – delle autorità cinesi, che nelle ultime settimane hanno fatto un po’ di tutto, in modo confuso, quando non sbagliato. Sui mercati finanziari, l’incertezza è pericolosa se diventa paura». Allo stesso tempo il Made in Italy potrebbe finire trascinato nel rallentamento generale degli scambi, con importanti partner della Cina come Germania e Francia che sono anche i due principali mercati di sbocco delle nostre esportazioni. Qualcuno ha parlato del rischio di una 'recessione globale', e in questo caso l’Italia vedrebbe spazzato via anche la crescita dichiarata negli ultimi due trimestri. Secondo i dati pubblicati dal ministero dello Sviluppo economico, l’interscambio fra Italia e Cina si è attestato l’anno scorso a 35,6 miliardi di euro, di cui 10,5 esportazioni italiane, con un saldo negativo pari a 14,6 miliardi. I principali prodotti esportati sono macchinari, autoveicoli, tessile e concia. Nel 2014 la Cina occupava l’ottava posizione nella graduatoria dei nostri mercati di sbocco, mentre l’Italia è al 25esimo posto nell’elenco dei Paesi esportatori verso la Cina. Ben più forte la nostra esposizione verso la Germania, il mercato europeo che rischia di pagare il prezzo più alto per la frenata dell’economia cinese. Berlino è il nostro primo cliente, con esportazioni che l’anno scorso hanno totalizzato oltre 50 miliardi di euro, in rialzo del 3,3% sul 2013. Ed è anche il nostro maggiore fornitore, con un interscambio fra i due Paesi che ha raggiunto nel 2014 quota 104,6 miliardi, in aumento del 2,9% rispetto all’anno precedente. Il saldo è negativo per 4,5 miliardi. Le esportazioni italiane in Germania sono molto diversificate. Tuttavia, dopo le macchine per l’industria, c’è un settore strettamente legato ai destini del Made in Germany: si tratta di 'parti e accessori per autoveicoli e loro motori', i pezzi di ricambio per automobili, con una quota che supera il 5% del totale. Proprio le vendite delle case automobilistiche occupano da sole il 17,9% delle esportazioni tedesche e hanno contribuito a fare della Cina il terzo partner commerciale della Germania. Secondo Destatis, l’Ufficio di statistica di Berlino, gli scambi fra i due Paesi hanno raggiunto l’anno scorso 154,2 miliardi, di cui 74,5 miliardi sono importazioni cinesi. Pechino è la quarta destinazione delle esportazioni tedesche dopo Francia, Stati Uniti e Regno Unito. Noi siamo la settima. «Se le economie emergenti non sono più le locomotive di una volta, a noi serve una locomotiva 'nostra' per riuscire ad ottenere gli obiettivi di crescita del reddito e dell’occupazione che tutti vogliamo – commenta Vaciago –. Dovremmo farlo a Bruxelles, almeno a livello dell’Eurogruppo: la nostra linea fino a ieri era solo una richiesta di 'flessibilità', ma questo non basta più. Ci vuole un comune forte impegno a sostegno della crescita, con le politiche appropriate». E la vicenda della Cina, conclude l’economista, insegna che «prima lo facciamo e meglio è...». Le preoccupazioni hanno riguardato finora soprattutto il settore del lusso, una punta di diamante del Made in Italy. «Penso che i nostri grandi brand della moda, che già si riferiscono ad un consumatore maturo e amante del lusso e quindi abituato a spendere e a non farsi intimorire da prezzi elevati, possano soffrire limitatamente del processo di svalutazione dello Yuan – spiega Gianfranco Di Natale, Direttore Generale di Sistema Moda Italia (Smi) –. Credo invece che il problema potrebbe porsi per molte delle medie e piccole aziende italiane, molte anche della parte a monte del settore tessile e che non vendono ad un consumatore finale ma ad aziende cinesi soprattutto semilavorati e tessuti». Il settore, spiega Di Natale, aveva colto da tempo le avvisaglie di una frenata cinese. «È un dato di fatto – spiega il numero uno di Smi – che la svalutazione dello yuan va ad aggiungersi ad altri fattori che negativamente in questo ultimo anno e mezzo hanno già prodotto decisi rallentamenti del nostro export di moda nel Paese del Dragone. Un esempio è stata la volontà del governo cinese di combattere la corruzione colpendo il fenomeno delle regalistica, iniziativa questa che ha impattato violentemente su molti dei nostri importanti brand di moda». Sistema Moda Italia ricorda che che nei primi cinque mesi dell’anno il tessile abbigliamento moda italiano ha esportato in Cina per 366 milioni di euro, a fronte dei 1.176 milioni di export in Germania e 811 milioni negli Stati Uniti. «Il settore ha perso molto di più nella Federazione Russa, evidenziando un -32,1% rispetto allo stesso periodo del 2014 – osserva Di Natale –. Comunque, se si guarda alla Cina solo come mercato di sbocco dei nostri prodotti del tessile abbigliamento moda, quanto sta accadendo chiaramente non è positivo ma non dovrebbe allarmare più di tanto. Se invece guardiamo alla Cina come potenza industriale ed economica nonché una delle locomotive dei processi di sviluppo dell’economia mondiale, allora qualche seria preoccupazione potrebbe impedirci di dormire sereni, soprattutto in considerazione dei molto bassi trend di sviluppo delle economie del Vecchio Continente, quasi tutte alle prese con una uscita dalla crisi non ancora consolidata».