giovedì 8 ottobre 2009
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«I niuri, che fine hanno fatto i niuri?». I niuri in siciliano sono i neri, i braccianti irregolari che lavorano nei campi e dormono nelle masserie abbandonate. A Giampilieri l’altroieri qualcuno si chiedeva che ne è di quel piccolo manipolo di stranieri che si incrociavano talvolta nelle campagne. Saranno scappati in tempo? O anche loro sono stati travolti dal fango? Essendo degli "invisibili", non risultano ufficialmente fra i dispersi. Se sono vivi, non torneranno a dirlo, per paura. Se invece anche qualcuno di loro è sotto i detriti, quando lo si troverà non avrà, sulla tomba, neanche un nome. Fantasmi, comunque. E a Gela? A Gela sono sbarcati in venti, o trenta; scaricati dai trafficanti in mezzo al mare su un canotto senza remi, approdati di notte, e subito scoperti e fermati. In due sono annegati; uno, un ragazzo di sedici anni, è stato trovato, semiassiderato ma vivo, aggrappato a una boa. Qualcuno dei clandestini confusamente ha raccontato che i compagni morti sono sette. È vero? È la fantasia esasperata di chi si è salvato per un soffio? Chissà se il mare restituirà altri corpi. O se anche queste facce che secondo i compagni mancano all’appello rimarranno fantasmi. La invisibilità di chi legalmente "non esiste" e il cinismo di trafficanti aguzzini che abbandonano la merce ormai sfruttata come un vuoto a perdere fabbricano fantasmi. Chissà se esistiti, chissà se morti davvero, nel fango di Giampilieri, nelle acque di Gela. Fantasmi, comunque. Ieri al Sinodo dei vescovi africani il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Martinelli, ha ricordato la tragedia delle migliaia di profughi delle regioni sub-sahariane che arrivano in Libia dopo un durissimo viaggio, sognando l’Occidente. E in Libia «non hanno alcuna assistenza sanitaria; rischiano il carcere, la deportazione e, se sono donne. la prostituzione e la schiavitù». I disperati dei barconi, visti dall’altra parte del canale di Sicilia. Ciò che spiega perché pagano migliaia di dollari per stiparsi in ottanta su un gommone, o per farsi scaricare come zavorra in mare. Ma ieri al Sinodo dei vescovi africani il presidente della Conferenza episcopale dell’Etiopia ha detto: «La vita degli africani è sacra e non priva di valore». Come un tirare la giacca all’Occidente, a questa grande Europa che quasi ogni giorno sa di un nuovo naufragio, ma non se ne turba più che tanto. Chi invece vede, e non chiude gli occhi, immagina. Sogna: un piano, una Conferenza europea, un progetto concreto che allenti i nodi della povertà africana, e dia qualche speranza alla sua gente. Perché non si affolli a soffrire e a morire appena oltre il deserto, o in mezzo al mare. Ma sembra quasi vano dirlo, sembra una nobile utopia. Qualcosa che, temiamo, all’Europa di oggi non interessa. E dunque teniamoci questi poveri fantasmi, vaganti nelle cronache. Annegati o no, sepolti sotto il fango di Giampilieri o no? Non è, sia chiaro, indifferenza dei soccorritori: li cercano in mare con gli elicotteri, li cercano sotto i detriti. È una indifferenza collettiva più sottile, inavvertita e insieme più ampia. È che quegli uomini senza una casa, senza documenti, in fuga da esplose povertà o da guerre ignorate, non avendo più una patria né un nome, poveri in canna, sembrano al nostro mondo non più "veramente" uomini. Non-uomini per i trafficanti, che li trattano come roba; e forse anche per molti di noi, assuefatti a troppi naufragi, e quasi oppressi da questa massa di miserabili che preme. Ma, ha detto ieri a Roma quel vescovo africano, «anche le nostre vite hanno un valore». Le vite dei "niuri" di Giampilieri, esattamente uniche come le nostre. Non è inutile averlo ricordato. In tanta distrazione e abitudine, nella tentazione della pura difesa del proprio benessere, che almeno noi cristiani non ce lo scordiamo mai.
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