La vicenda, è superfluo dirlo, allinea purtroppo una lunga catena di vittime. I due pescatori del Kerala, per cominciare, di cui il polverone massmediatico-giudiziario internazionale ha opacizzato il profilo, degradandoli ad accidente di cronaca, quasi fossero esseri umani di serie B. A loro per primi si deve il rispetto dovuto alla vita umana, se pure spenta – magari – per fatalità, incidente, eccesso di difesa. La seconda vittima è l’onore italiano. A vulnerarne l’integrità è stato il balbettante e assieme incomprensibile comportamento dei ministeri degli Esteri e della Difesa, che dapprima hanno promesso e successivamente disconosciuto il proprio solenne impegno al rientro dei due marò di fronte alla Corte indiana, violando quel Pacta sunt servanda (i patti si rispettano), pilastro cardine del diritto internazionale fin dalla sua teorizzazione avvenuta nel 1625 ad opera dell’olandese Hugo Grotius nel suo De jure belli ac pacis ('Le leggi della guerra e della pace').
Increscioso, poi, è stato sentir evocare conciliaboli dietro le quinte (i marò come merce di scambio per conservare la commessa indiana di dodici elicotteri Agusta-Westland). E ancor più dover constatare che questa vicenda ha finito per alimentare – ahinoi – un antico pregiudizio sulla nostra scarsa affidabilità nel mantenere la parola data. Ma anche il diritto internazionale è caduto vittima sul campo. In palese violazione del medesimo, le autorità indiane si sono infilate in una situazione apparentemente senza via d’uscita, con l’opinione pubblica a incalzare il governo di Delhi perché fosse fatta giustizia e le Corti indiane a inanellare un abuso dietro l’altro, l’ultimo dei quali – ancorché più proclamato che effettivo – culminava con una sorta di arresto domiciliare per il nostro ambasciatore Mancini, cui in spregio alla Convenzione di Vienna le autorità di Delhi arrivavano a negare lo status di diplomatico e la conseguente immunità che vige in tutto il mondo, anche in caso di guerra.
Penultima, ma non meno cruciale vittima dell’affaire dei marò è stata l’opinione pubblica, vellicata e disorientata in Italia come in India dalla campagna condotta dai mass media, cui si è immediatamente accodata in entrambi i Paesi una virulenta strumentalizzazione politica, che di Girone e Latorre ha fatto di volta in volta dei criminali o degli eroi, dei martiri della libertà o dei campioni di doppiezza.
Non stupiamoci: nel 2014 in India ci saranno le elezioni generali e a un’indebolita Sonia Gandhi, già sconfitta alle elezioni regionali, non è parso vero di attaccare l’Italia per far dimenticare le proprie origini torinesi e apparire più realista del re, così come l’opposizione al Partito del Congresso reclama a gran voce una punizione esemplare che salvi l’onore della nazione. L’unica certezza in queste ore è lo sconcerto delle famiglie dei due marò, prima illuse poi di nuovo rassegnate alla crudele separazione.
E veniamo all’ultima vittima – per ora, almeno – di questa malcondotta vicenda. Si tratta della figura dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza dell’Unione Europea, pomposa locuzione partorita dal Trattato di Lisbona che affida, oggi, alla baronessa britannica Catherine Ashton (e alla elefantiaca struttura diplomatica da lei istituita) il compito di 'ministro degli Esteri' della Ue. Interpellata dal governo indiano sulla vicenda, se ne è tranquillamente lavata le mani, nonostante l’Italia con le sue quattrocento aziende in loco sia il quarto partner commerciale europeo di Delhi. E torniamo a Latorre e Girone. Anche loro, in un certo senso, sono soltanto vittime. Di scelte sbagliate, come minimo. E, forse, a torto o a ragione saranno loro gli unici a pagare.