Avvezzi come sono i libanesi alla crudezza della guerra, la notizia occupa poche righe su
L’Orient–Le Jour, il principale quotidiano francofono di Beirut. Per noi invece l’agguato al convoglio Unifil in Libano che ieri ha ferito seriamente sei militari italiani è qualcosa di più di una notizia di cronaca. Come non collocarla infatti in un più vasto contesto che ha come epicentro Israele e come attori principali Hezbollah, Hamas, l’Iran, la Siria e più da lontano (ma è davvero tanto lontano?) al–Qaeda?Gli italiani del contingente Unifil erano incaricati di controllare, pacificare, sminare e sorvegliare la zona a sud del fiume Litani, quella porzione cioè del Libano che comunemente viene chiamata
Hezbollahland, vista l’onnipresenza sciita e la capillare presenza dei militanti del “Partito di Dio”. L’Operazione Leonte – così si chiamò l’invio di un contingente di caschi blu italiani che, in ottemperanza della risoluzione dell’Onu 1701 dal 2006, prese posizione tra il Litani e la famigerata “Linea Blu”, il confine disegnato dagli israeliani dopo la guerra di cinque anni fa – è stata indubbiamente una delle migliori missioni di peacekeeping mai realizzate al mondo. E non soltanto per la pressoché totale assenza di ostilità, ma anche e soprattutto per l’opera di educazione, di tolleranza, di civiltà che i nostri soldati hanno condotto in una zona del Libano lontana dai fasti e dalla ricchezza a volte smisurata e ingiusta che si può reperire a Beirut nei lussuosi quartieri costruiti dai sunniti di Rafik Hariri con i capitali dell’Arabia Saudita. In quel meridione che va da Sidone a Tiro, fino ai confini della Galilea, la missione italiana ha lasciato tracce e radici preziose.Nessuno tuttavia sottovalutava il pericolo, soprattutto ora che con il risveglio del Maghreb e lo scardinarsi di equilibri antichi, tutto sembra rimescolarsi. Ora che l’Egitto ha riaperto il valico di Rafah con Gaza consentendo il passaggio – umanamente indispensabile, non c’è dubbio – di viveri e beni di prima necessità, ma fatalmente anche di denaro, armamenti, militanti; ora che Fatah e Hamas hanno formalmente fatto pace; ora che il premier Netanyahu è in evidente difficoltà di fronte alle richieste palestinesi di uno Stato sovrano; ora che la Siria brucia sotto la spietata repressione di un satrapo in difficoltà come Bashar al–Assad, ora che l’Egitto muta il profilo delle proprie relazioni regionali nonostante la solida alleanza e il generoso aiuto americano, mentre la Libia e lo Yemen ancora cercano un domani differente. Nulla di più tragicamente probabile poteva avverarsi in un simile scacchiere, dove uno zolfanello acceso qua provoca una fiammata poco più in là.Chi si prenderà la responsabilità diretta dell’agguato al convoglio Unifil? E bastano lo sgomento e la condanna degli Hezbollah, che da sempre menano vanto del fatto che non cade foglia che lo sceicco Nasrallah non voglia? O dobbiamo cominciare a pensare che perfino il “Partito di Dio” è in crisi di leadership e di credibilità e che molto ormai di quello che accade gli sfugge di mano? Comunque la giriamo, quello di ieri è il segno eloquente di un’accresciuta instabilità nella regione, forse il prodromo di qualcosa di più vasto e grave i cui contorni per ora sono estremamente nebulosi.Qualcuno inevitabilmente riproporrà un quesito antico: è bene andarsene dal Libano, dall’Afghanistan, da tutti quei luoghi dove il
peacekeeping italiano ha dato i suoi frutti pagati anche, purtroppo, con le vite di molti soldati? «Siamo intenzionati a farlo – dice il ministro Frattini – troveremo la modalità, che non può essere quella di dire che da domani ce ne andiamo». E anche questa è una strada obbligata.