La profanazione del diritto e della giustizia hanno sempre attivato la voce e lo sdegno dei profeti, che continuano a smascherare i corrotti e a chiamarli alla conversione. La critica di Qohelet alla sua società iniqua è diversa, ma non è meno radicale di quella profetica. Crede poco alla conversione morale dei potenti, ma con la forza della sua sapienza smonta dal di dentro la logica del loro potere e ricchezza, mostrandone, laicamente, la vanità intrinseca. Per ridare speranza ai poveri umiliati servirebbero le parole infuocate di nuovi profeti, ma sarebbero altrettanto preziosi nuovi Qohelet, capaci di svelare la sciocchezza e la tristezza delle nostre finte ricchezze e false felicità.«Se vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo. Ogni guardiano ne ha sopra un altro, e c’è uno più alto che li domina. Ma anche il re per il suo profitto è servo della terra» (Qohelet 5,7-8). Giunto a metà del suo discorso, Qohelet ci conduce dentro le dinamiche del potere e delle società burocratiche e gerarchiche. Il suo primo dato è il «povero oppresso», ma invece di pronunciare una condanna morale, "ama" quel povero con la verità, svelandoci una realtà non evidente. Ci dice che coloro che sembrano forti e dominatori in realtà sono vittime di un sistema malato e corrotto. L’occhio smascheratore di Qohelet riesce a vedere al di sopra il povero un’alta piramide di oppressioni, di sfruttamenti, di ingiustizie. Sopra un aguzzino ce n’è un altro che lo opprime, e così via, fino ad arrivare all’ultimo capo, il re, che Qohelet vede ancora «servo della terra». Anche se il significato di questo versetto (5,8) è dubbio, perché corrotto dal tempo, non è improbabile pensare che Qohelet volesse inserire anche il re nella catena di servitù e di vanità. Nemmeno l’uomo più grande e ricco – ce lo dice anche la Genesi nel "ciclo di Giuseppe" – può affrancarsi dalla dipendenza dai ritmi della natura, dalle carestie e dalle calamità, dal tornare polvere e terra come tutti gli Adam: «Dal ventre di sua madre è uscito nudo, e così come è venuto se ne andrà». (5,14).
In questa descrizione dell’ingiustizia come una piramide sociale di soprusi, ci possiamo leggere molte cose. Innanzitutto Qohelet ci offre la possibilità di avere uno sguardo morale meno severo sull’ultimo aguzzino che opprime il povero, perché quel suo ultimo atto ingiusto di sopruso spesso è originato da altri soprusi di cui egli è vittima a sua volta. Non c’è nessuna giustificazione morale del suo comportamento, ma solo un invito a leggere meglio lo sfruttamento. Quelli che ci appaiono rapporti vittima-carnefice sono spesso rapporti vittima-vittima. Il mondo è popolato di hevel, tutto è un infinito Abele, la terra è piena di vittime: ci aveva detto Qohelet aprendo il suo libro. Ora ci fa vedere vittime anche dove vediamo soltanto carnefici. Da qui derivano tre note importanti: l’aumento delle gerarchie fa crescere il numero di vittime sotto il cielo; sull’ultimo povero oppresso si riversa il peso dell’intera piramide; se vogliamo salvare i poveri dall’oppressione vanno abbattute le piramidi generatrici di vittime. Ieri, e oggi. Quando oggi vediamo imprese capitalistiche o altre istituzioni gerarchiche, il sopruso o lo sfruttamento non ci appaiono come la loro prima natura. L’ideologia neo-manageriale sta poi sostituendo i rapporti gerarchici con gli incentivi, che ci vengono spacciati come relazioni orizzontali, contratti liberamente scelti da tutte le parti. In realtà, se ci facciamo guidare da quella antica sapienza e cerchiamo di guardare oltre le apparenze ideologiche, scopriamo che dietro un prodotto finanziario scellerato somministrato da un funzionario a un pensionato, c’è un funzionario di ordine superiore che mette pressione e opprime quel primo funzionario per il raggiungimento di obiettivi dai quali dipendono redditi e carriera di entrambi. E così via, salendo su per i gradini della piramide, fino a trovare in cima uno o più capi "servi" delle oscillazioni di borsa, della geopolitica, dei fenomeni naturali. In quel prodotto-sopruso finale pesa tutta la catena di rapporti sbagliati. Non tutte le gerarchie sono soprusi e oppressioni, ma molte lo sono ancora, e la Bibbia ci invita a sognare una terra nuova, un diritto e una giustizia che non ci sono ancora. Non esistono organizzazioni senza esercizio dell’autorità, ma è possibile un esercizio non gerarchico dell’autorità. Sono pochi gli esperimenti storici di autorità non-gerarchiche, e tra questi molti sono stati fallimentari. Ma il povero resterà "oppresso" e le vittime si moltiplicheranno finché non impareremo a tradurre il principio di fraternità nella governance di imprese e istituzioni.
Dopo questa descrizione della morfologia del potere e della gerarchia, Qohelet torna su uno dei suoi temi forti: la vanità della ricerca della ricchezza, il fumo dell’avarizia: «Chi cerca il denaro il denaro lo affamerà, chi pretende abbondanza trova penuria. Fumo, hevel, è anche questo» (5,9). Una frase che dovremmo porre all’ingresso di business school, imprese, banche. Quando il denaro da mezzo diventa fine, si trasforma in uno strumento creatore di infelicità infinita, perché lo scopo principale e presto unico della vita diventa il suo accumulo; e l’accumulo, per sua stessa natura, non ha mai fine, è un idolo che vuole sempre mangiare. Non c’è povero più infelice dell’avaro, perché l’aumento del denaro aumenta la sua fame. E poi continua: «Più c’è roba più c’è mangioni e parassiti. E al suo padrone, che cosa resta? Goderne appena con gli occhi. Dolce è il sonno di chi lavora, poco o molto che mangi; ma a un riccone arcisazio è impedito dormire». (5,10-11). Quanta saggezza!
Qui Qohelet ci conduce all’interno di un palazzo mediorientale della sua epoca. Ci mostra un ricco, attorno a lui una pletora di cortigiani e di parassiti che mangiano la sua ricchezza. Tutta e solo infelicità, dei parassiti e del ricco, cui vengono mangiati ricchezza e sonno. Fuori dal palazzo c’è invece un lavoratore, un contadino o un artigiano, che vive del suo lavoro, e fa sogni dolci. Ritroviamo in queste poche parole l’antico ed eterno conflitto tra rendite e lavoro, tra chi vive consumando pane di ieri e di altri e chi vive del poco pane del suo lavoro. Non è mai stato il lavoro a generare le grandi ricchezze. Queste sono quasi sempre prodotte dalle rendite, cioè da redditi che nascono da qualche forma di privilegio, di sopruso, di vantaggio. E le rendite generano parassiti, consumo improduttivo, da cui non nasce né lavoro né felicità per nessuno. La "sindrome parassitaria" appare puntuale nei tempi di decadenza morale, quando imprenditori, lavoratori, intere categorie sociali smettono di generare oggi lavoro e flussi di reddito nuovo e investono energie per proteggere i guadagni e i privilegi di ieri. Il parassitismo è una malattia che non ritroviamo solo nella sfera economica. Cadono in questa sindrome, ad esempio, quelle comunità o movimenti che divenuti grandi e belli grazie al lavoro dei fondatori e della prima generazione, invece di sviluppare il patrimonio ereditato con nuovo lavoro, rischio, creatività, iniziano a vivere di rendita, sazi del passato, incapaci di generare "figli" e futuro. La sindrome parassitaria è ancora la principale causa di morte di imprese e di comunità.
Qohelet sta chiaramente dalla parte del lavoro, di chi fatica "sotto il sole" per guadagnarsi il pane. Ce lo aveva detto (3,12-13), e ora ce lo ripete con più poesia e forza: «Ecco quanto io vedo di buono e bello per l’uomo: la bella felicità di mangiare e bere. ... Questo è il suo destino» (5,17). Non c’è altra felicità di quella che possiamo intravvedere nella quotidianità del nostro lavoro, godendone i frutti. Qohelet continua, coerente, la sua polemica contro la religione retributiva ed economica. La benedizione di Dio non sta nella ricchezza e nei beni. Ma, sorprendendoci, ci dice che è possibile che anche il ricco, per una concessione speciale di Dio, possa condividere una "parte" di questa buona felicità: «All’uomo, al quale Elohim concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Elohim» (5,18). È raro, ma non è impossibile: anche il ricco può essere felice, se lavora e riesce a godere della sua fatica.
Ci sono milioni di persone, ricche e povere, imprenditori e casalinghe, che riescono a dare sostanza e felicità alla propria vita semplicemente lavorando. Che vincono ogni giorno la morte e la vanitas riordinando una stanza, preparando un pranzo, riparando un’auto, facendo una lezione. Ci sono certamente felicità più alte di queste nella nostra vita, ma non siamo capaci di raggiungerle se non impariamo a trovare la semplice felicità nella fatica ordinaria di ogni giorno. Ci salviamo solo lavorando. Non per una gioia sentimentale o auto-consolatoria che abbonda nelle penne dei non-lavoratori – Qohelet non ci perdonerebbe mai –, ma per quella che fiorisce dentro la fatica e anche dalle lacrime. Qohelet ci dice, però, qualcosa di ancora più bello: «Egli non penserà troppo ai giorni della sua vita, perché l’Elohim è risposta nell’allegria del suo cuore» (5,19). Il lavoro è generatore di gioia perché occupandoci in una attività non-vana distoglie il cuore dal "pensare troppo" e male alle vanità pur reali della nostra vita; e perché è lì che ci attende Elohim con la sua allegria. Questa gioia umile non è l’oppio dei popoli, è semplicemente il nostro bel destino. Se la presenza di Elohim nel cuore è una "risposta" alla buona fatica, se è il primo salario del lavoratore, allora quella gioia che ogni tanto ci sorprende proprio mentre lavoriamo, può essere nientemeno che la presenza del divino sulla terra. Questa, amico Qohelet, è davvero una bella notizia. Dov’è allora il tuo tanto conclamato pessimismo? Sotto il sole, la gioia non-vana è possibile.l.bruni@lumsa.it