Bombardare un consolato, quali che siano le motivazioni, non è mai giustificabile e rappresenta una palese violazione della prassi internazionale, per quanto si sia cavillato sui distinguo del diritto internazionale. Ma altrettanto inaccettabile sarebbe se l’Iran reagisse all’attacco contro il proprio consolato a Damasco con un lancio di missili o droni diretti contro il territorio israeliano, come da molti giorni sembra ormai probabile, oppure con l’usuale risposta asimmetrica tanto cara a Teheran, fatta di atti di terrorismo compiuti spesso da milizie alleate. È evidente come due errori, anzi due inaccettabili azioni militari che calpestano ogni norma, non si pareggino reciprocamente. Ma rischino solo di destabilizzare una regione – quella mediorientale – già provata da anni di conflitti, guerre per procura, settarismi e ora dalla guerra a Gaza, che il sistema internazionale non riesce in alcun modo a fermare.
La motivazione addotta dal governo israeliano per l’attacco è stata quella di eliminare il generale dei pasdaran Mohammad Reza Zahedi, uno degli uomini chiave per gestire la galassia di milizie e gruppi del cosiddetto “Asse della resistenza” creato dall’Iran. Nello stesso tempo, si voleva mandare un chiaro segnale a Teheran mostrando come Israele sapesse rispondere colpo su colpo, e in modo anzi più letale. Insomma, una mossa estrema per indurre i pasdaran alla moderazione.
Eppure rimane il fondato dubbio, alla luce dell’oltranzismo di Bibi Netanyahu nel continuare un conflitto che sta facendo stragi immani fra la popolazione civile palestinese, che l’obiettivo di questo schiaffo umiliante dato al regime iraniano sia, al contrario, quello di provocare proprio una risposta militare diretta. Perché un attacco da parte della Repubblica islamica colmerebbe il divario politico sempre più ampio fra Washington e Tel Aviv. L’Amministrazione Biden mostra da mesi la propria crescente irritazione verso la radicalità dell’esecutivo israeliano, creando un solco fra i due storici alleati come mai negli ultimi decenni. Ma è assolutamente ovvio che se dei missili iraniani dovessero essere effettivamente lanciati, gli Stati Uniti dovrebbero in qualche modo reagire, allargando il conflitto a tutta la regione mediorientale. E l’allargamento, che avrebbe effetti disastrosi per le popolazioni e per le economie di tutto il pianeta, gioverebbe però agli opposti estremismi: ad Hamas sicuramente, ancora lungi dall’essere distrutta come sperava Netanyahu; ma anche all’ultra-destra israeliana, ossessionata dal ricreare l’Israele biblico, attuando politiche ancora più aggressive verso il popolo palestinese. Si vedrà nei prossimi giorni, o addirittura nelle prossime ore, se Teheran avrà deciso di rispondere con un’azione militare diretta immediata oppure se rimanderà nel tempo la vendetta.
Chi conosce i pasdaran iraniani sa bene come spesso non rispondano subito, talora passano anni prima di una loro reazione, sovente praticata contro obiettivi lontani o con atti collaterali di terrorismo vero e proprio. È la loro cinica e nota “pazienza strategica”. In questi ultimi anni, al di là della roboante retorica, tanto i pasdaran quanto le milizie libanesi di Hezbollah hanno mostrato grande prudenza, rifiutando ogni coinvolgimento diretto. Non certo per spirito pacifista, ma perché l’azione indiretta, tramite le milizie e i movimenti a loro legati, ha permesso loro di rafforzarsi regionalmente, mettendo spesso in crisi le politiche dei loro avversari. Non a caso, le stesse monarchie arabe del Golfo si stanno muovendo per invitare alla prudenza e per cercare di frenare l’ira iraniana: strette fra la loro alleanza (ufficiale o ufficiosa che sia) con Israele, il ribollire delle loro piazze sempre più furenti per quanto accade a Gaza e timorose di venire coinvolte direttamente in un conflitto allargato, sono la dimostrazione dell’intreccio intricatissimo di variabili e di interessi contradditori. Sperare nella ragionevolezza e nel senso di responsabilità nel Medio Oriente odierno significa dimostrare un ottimismo che sconfina nell’utopia. Ma è evidente che solo una tregua permanente a Gaza possa permettere di depotenziare la corsa verso il peggio. Stati Uniti, Europa e i Paesi arabi coinvolti nelle trattative possono e devono essere più assertivi nell’imporre uno stop agli scontri. È il praticare la diplomazia e il cercare la pace, non certo il lancio di missili, che mette all’angolo i tanti estremisti.