A dire il vero, nella nostra storia c’è stato un altro momento in cui le urne avevano decretato un risultato analogo, con tre forze politiche completamente antitetiche le une alle altre: la Costituente nel 1946. Il Pci, la Dc e i vecchi liberali; sostanzialmente, un terzo ciascuno e tre modi di vedere il mondo, la politica e la stessa geografia, del tutto opposti. Eppure in quella circostanza è successo qualcosa in grado di dare un futuro a un Paese ridotto dalla guerra a un cumulo di macerie fumanti – così come oggi rischia di tornare ad essere –; nel 1946 è successo che l’altro è stato percepito come un bene e non come un nemico. Basta guerre, basta avversari politici in galera, basta soprattutto con un’idea di Stato 'padrone' della persona. Il compromesso è stato inclusivo e non esclusivo.
Giorgio Napolitano, con il suo appello fermo e commosso all’unità della nazione, è un uomo di quella tempra, di quella stoffa. E lo dimostra con la sua storia. Egli nasce e cresce in una di quelle tre anime politiche della Costituente – quella comunista – e di certo non è un cattolico; ma proprio per questo è ancora più sorprendente e meritevole di rispetto osservare come negli ultimi anni abbia mostrato un’effettiva capacità di costruzione e non di distruzione, una volontà di gettare le basi per un dialogo e non di erigere muri. Dall’appello condiviso con Benedetto XVI per l’emergenza educativa nel nostro Paese, alla consapevolezza di non essere chiamato a svolgere una funzione 'salvifica' per la nazione, bensì «una più accentuata consapevolezza del limite» delle sue attribuzioni. D’altronde, questo è richiesto a un uomo delle istituzioni: preservare le ragioni della concordia e della pace, non 'salvare' l’uomo da se stesso. Il secondo aspetto eccezionale in questa vicenda è il 'metodo' scelto dal Presidente.
Siamo in una situazione politica angosciosa, di cosa c’è bisogno? Soluzioni. Formule. Programmi. Certo, il discorso d’insediamento entra anche nel merito di tutto ciò, ma il presidente a queste formule ha anteposto qualcosa che viene prima e che probabilmente sarà suonato 'strano' a molti di coloro che sedevano nell’aula di Montecitorio: «Bisogna (…) offrire, al Paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi». Innanzitutto c’è bisogno di una 'testimonianza'. Prima di sapere cosa fare domani, c’è bisogno di qualcuno oggi; altrimenti la speranza nel futuro è solo una 'beata illusione'. Il valore politico dell’esempio, la stessa politica vissuta come 'testimonianza' è una delle più grandi novità nel momento che viviamo. Anche perché se i sogni non trovano uomini in grado di realizzarli, facilmente diventano incubi.
Questo anziano uomo politico di 87 anni che decide – invece di fermarsi come poteva – di proseguire nella sua responsabilità, perché il nostro Paese ha bisogno di «vedere» esempi di «consapevolezza e di coesione», lancia con la sua stessa persona una sfida che ognuno di noi deve raccogliere, e non solo i politici. E così si spiega anche quel riferimento sorprendente al suo discorso al Meeting di Rimini in occasione dell’inaugurazione della Mostra sui 150 dell’Unità di’Italia. Chi di noi ha partecipato a quell’incontro ricorda bene come fosse stato forte l’invito a non temere di «parlare il linguaggio della verità». L’unità e il futuro dell’Italia vivono oggi negli esempi di unità e di coesione del suo popolo, quella «grande riserva di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo». Certo occorre un «ideale concreto» per rimettere oggi in movimento queste risorse. Diceva in un articolo di alcuni giorni fa don Julián Carrón, «senza una reale esperienza di positività, in grado di abbracciare tutto e tutti, non è possibile ripartire».