Un «no» che arriva dopo un’intensa e serrata trattativa non può essere considerato una scelta. È piuttosto una resa, la presa d’atto che quanto richiesto non è stato ottenuto. È la logica a suggerirlo. Non si negozia quando si ha già in canna un giudizio negativo. Non si decide un voto contrario realmente voluto e consapevole un secondo prima di recarsi nel segreto dell’urna. Piuttosto lo si sbandiera ed esibisce con anticipo, senza lasciarsi tritare dalle accuse di alimentare doppi e tripli forni. La confusione degli ultimi giorni e delle ultime ore di Fratelli d’Italia è lì a testimoniare una reale indecisione della premier Giorgia Meloni, rimasta vittima di una strategia da cui in tanti (amici, alleati e persino avversari, ma soprattutto la stessa Ursula von der Leyen) l’avevano messa in guardia: non si possono giocare le partite europee sovrapponendo i due cappelli della posizione di governo e della leadership partitica. Li si può e deve integrare, non sovrapporre. Il risultato è che l’esperta politica tedesca le garanzie che poteva avere dalla presidente del Consiglio dell’Italia le ha cercate, e trovate, altrove, nell’area ambientalista che non vedeva l’ora di allargare il concetto di destra sovranista anche alla formazione meloniana.
Stavolta, dunque, Giorgia Meloni potrà meno agevolmente rivendersi in chiave interna il valore della «coerenza». L’operazione “siamo sempre noi e non siamo cambiati” riuscì dopo il Consiglio Europeo di fine giugno, quando la premier si astenne sul bis della popolare Von der Leyen come presidente della Commissione Ue e si espresse contro le altre alte cariche comunitarie pre-assegnate a un socialista e a una liberale. Ma proprio a margine di quell’evento Meloni lanciò una scommessa: il patto Popolari-Socialisti-Liberali non avrebbe retto, i voti di FdI e l’apporto dei Conservatori sarebbero risultati necessari. In venti giorni, invece, è accaduto che la sua famiglia politica, Ecr, ha perso campo a favore del nuovo gruppo sovranista dei Patrioti, che FdI è rimasta isolata persino tra i Conservatori nel tentativo di condurre una trattativa con Von der Leyen, che i Verdi hanno offerto il cuscinetto che VdL cercava, che gli amici Popolari non si sono strappati i capelli più di tanto per l’allargamento sostanziale del perimetro della maggioranza europea a sinistra. E beffa delle beffe il Green Deal, quella roba da «ecoterroristi» contro cui la stessa Meloni ha fatto campagna elettorale, è uscito dall’aula di Strasburgo più forte di prima.
Chiaro che ora la premier tenterà una contronarrazione, com’è legittimo che sia. E cercherà di fare di necessità virtù. È prevedibile che proverà, dal punto di vista ideologico, a tenersi le mani libere rispetto alle politiche europee. È prevedibile, inoltre, che riprenderà un dialogo con le altre destre a destra dei Conservatori, smentendo chi già ne prefigurava il riposizionamento da leader europea moderata. E non è da escludere che queste nuove circostanze le daranno un qualche “vantaggio competitivo” rispetto ad altri leader europei nel caso di vittoria di Donald Trump alle elezioni americane. Ma tutto ciò appare difficilmente conciliabile con le responsabilità di governo a breve e medio termine. La “strategia del doppio cappello”, che si è mostrata debolissima in questa fase, rischia di essere ancora più debole quando Meloni dovrà parlare con Bruxelles, e con Ursula Von der Leyen, dei conti pubblici italiani. Pur senza avallare strane tesi per cui i vertici europei potrebbero accanirsi contro l’Italia per consumare autolesionistiche “vendette”, è indubbio, ancora logica alla mano, che il dialogo sugli «interessi nazionali» è più complesso se la presidente del Consiglio dell’Italia viene percepita, e si autopercepisce, come opposizione politica alla Commissione. Persino l’esito della partita per il commissario italiano a Bruxelles, in cui il peso specifico di Roma dovrebbe rappresentare un insuperabile fattore oggettivo, rischia di essere alterato dalla confusione creata dai “due cappelli”. Perciò sarebbe auspicabile che la contronarrazione dei fatti di Strasburgo non arrivasse al punto di produrre un altro effetto-boomerang dannoso stavolta non per un partito, ma per il Paese. Da questa prospettiva, proprio la figura di Von der Leyen, che ha già dimostrato di sapere aprire con Meloni un dialogo pragmatico, può rappresentare ancora un appiglio, anziché un problema, per la premier italiana.
Dal punto di vista interno, infine, impossibile non cogliere un nesso tra il “no” europeo di FdI e le ultime dinamiche interne alla maggioranza. Al Consiglio Europeo di giugno Meloni aveva giustificato l’astensione su Von der Leyen anche come una posizione mediana tra la contrarietà della Lega patriota e il “sì” convinto della Forza Italia popolare. Il voto di Strasburgo riavvicina Meloni a Salvini e allontana la premier, invece, da Tajani. E aumenta per di più le distanze da Marina e Pier Silvio Berlusconi, che a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro hanno espresso la stessa “visione”: lo spostamento degli azzurri in un centro più autonomo, soprattutto sui valori di fondo.
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