lunedì 27 aprile 2015
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Noi quel dolore sordo che lei s’è portata dietro per anni non riusciamo nemmeno a immaginarlo, figuriamoci a provarlo. Troppo lontana la nostra fortunata condizione per capire che cosa significhi lavorare per ore nei campi sfruttata sino all’ultima goccia di sudore. Poi essere segregata nella stanzetta d’una casa, senza poterne uscire liberamente. E poi ancora il padrone, sì proprio un padrone, anziano, che s’approfitta di te, del tuo essere straniera, del tuo bisogno di mandare soldi a casa, in Romania, dove ci sono sei bambini da sfamare. E tu zitta, perché i tuoi figli devono mangiare. E zitta subisci, subisci fino a restare incinta. Quattro volte in nove anni. Figli dello scandalo che non possono essere partoriti, quattro piccoli martiri spediti in cielo senza neppure vedere questa terra. Scappi, ma neanche scappare ti basta. Perché il padrone ti ritrova, ti riprende e torna a violentarti in quella stessa casa dove stanno sua moglie e suo figlio. E tu zitta, perché sei straniera in questa terra di Sicilia. E perché ci sono sempre i tuoi sei bambini in Romania che aspettano quei quattro euro che ti danno.Noi quel dolore sordo che Erika s’è portato dietro per anni non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Ci monta dentro, invece, una rabbia antica, una voglia di sanare quell’ingiustizia con mezzi sbrigativi che fatichiamo a trattenere. Ma soprattutto ci brucia sulla pelle una vergona inaspettata, che pensavamo di non dover provare più. E invece c’è ancora un pezzo di Alabama del 1800 nella nostra Italia del 2015. C’è un pezzo di Paese, c’è una parte della nostra umanità che ci si apre davanti come un baratro. Ci lascia intravedere un abisso che pensavamo di aver ricoperto con secoli di progresso, di avanzamenti sociali, di giustizia. Conquistati con la lotta delle braccia e con l’educazione del cuore. E invece quel buco nero come d’inferno, sta ancora lì davanti a noi. O meglio sta ancora lì dentro di noi. Perché il male, prima di proliferare fino a diventare un sistema ramificato e ingiusto, esce sempre come un piccolo rivolo dal profondo dell’uomo. Davvero, come scriveva don Primo Mazzolari, «lo sfruttatore, il negriero, è dentro ognuno di noi, se non troviamo la forza di comprimerlo. La legge non basta, l’organizzazione sociale non basta... se io non sono capace di vedere nell’altra persona non solo un mio eguale, ma qualcosa di divino, se non riconosco un suo valore eterno».L’altra mattina l’incubo di Erika è finito. Ha avuto il coraggio di raccontare tutto il suo calvario ai carabinieri della compagnia di Ragusa, che l’hanno liberata. Il padrone – 67 anni di Acate – adesso è in carcere e già aspettiamo con ansia il processo, sperando che almeno un po’ di giustizia ora si compia, anche se nulla potrà risarcire Erika. Ma a noi – che pure avevamo sentito e letto e scritto di situazioni di schiavitù nei campi del Ragusano, come già in Puglia e in Campania – resta lo sconcerto per quanto è stato fatto a quella donna in 9 lunghi anni. Resta il dolore per lei che era straniera e anziché essere accolta è stata sfruttata e ferita nel profondo della sua dignità. Rimane soprattutto la vergogna a bruciarci sulla pelle, per quel pezzo d’Italia in cui s’è consumata una tale tragedia sotto lo sguardo, indifferente, di molti. Rimane lo sgomento per il male che siamo ancora capaci di compiere. Noi, qui, così tremendamente uguali a uno scafista nel Mediterraneo, a un trafficante d’uomini della Libia.
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