Nella vita di una persona si può catalogare tutto. L’unica classifica impossibile è quella del dolore. C’è chi accoglie senza lacrime la morte del marito e chi dispera per un esame andato male, chi si fa forza davanti a una diagnosi terribile e chi piange per il piccolo taglio a un ginocchio. E non c’è giudizio che tenga, nessuno ha il diritto di stabilire, da fuori, cosa sia grave e cosa no. Solo la morte è un evento inconsolabile a ogni latitudine, e che tu sia vittima o assassino, davanti a un cadavere poco importa. Né puoi sorridere quando una scomparsa si ammanta di tragica ironia, come spesso succede in questi giorni in Russia. Secondo quanto raccontano i corrispondenti da Mosca capita infatti che alle porte di casa, tante volte piccole abitazioni di campagna, bussi un funzionario di Stato che scorta la bara con dentro il cadavere di un soldato morto.
«Signora, mi spiace, le porto suo figlio». Solo che tante volte Ivan non è Ivan ma un volto sconosciuto. «Non è lui» grida la giovane madre tirando su con il naso. «Allora Sergei è vivo» si illude la ragazza che da mesi non sa nulla del fratello al fronte. Se non fosse una terribile tragedia si potrebbe richiamare la letteratura: “Il fu Mattia Pascal” o “Le anime morte” di Gogol il cui protagonista gira per le campagne comprando i nomi dei contadini morti dopo l’ultimo censimento e su cui i proprietari dovranno pagare le tasse fino alla prossima indagine. Così facendo Cicikov, l’autore della truffa, potrà reclamare quelle terre assegnate solo a chi ha un certo numero di servi della gleba. Vuol dire che nel 1842, quando fu scritto il romanzo, la vita di un uomo valeva quanto un aratro e una cascina, poco di più. E oggi non è tanto differente.
Per ogni militare morto il risarcimento è di circa diecimila euro. Una cifra ridicola, si potrebbe dire, che tuttavia in una situazione disperata può fare la differenza. Ridotte all’osso le spese per la sepoltura, resta un discreto gruzzolo con cui rimpinguare le magre entrate familiari. Inoltre, anzi soprattutto, resta la speranza. Sebbene la ragione dica il contrario puoi ancora immaginare che tuo figlio all’ultimo momento si sia messo in salvo, che abbia trovato riparo in un fienile abbandonato, che un giorno lo vedrai tornare stanco e smunto ma vivo.
Nel frattempo, pregherai sulla tomba di Sasha o Jurij fino a sentirli un po’ tuoi, così, anche se non ci vuoi credere, come un’altra famiglia farà con il tuo Ivan che tu preghi ogni giorno il buon Dio perché sia vivo. No, non puoi confidare su una burocrazia inetta, sai perfettamente che neppure alla fine della guerra l’anagrafe del cimitero metterà le cose a posto. Da oggi fino al tuo ultimo respiro dovrai arbitrare la battaglia tra la mente che ti dice «non tornerà» e il cuore che non smette di sperare. E intanto porterai fiori al figlio che non è il tuo, gli confiderai i tuoi desideri, gli consegnerai le tue lacrime, così stanche e disperate da non arrivare neanche più agli occhi.
Solo non potrai chiamare Ivan chi non lo è, perché il nome, come insegna la Bibbia, non è solo fiato caldo che esce dalla bocca, ma l’essenza di quel che siamo, è la verità intima che custodiamo nel perimetro del cuore. Soltanto nostro, di nessun altro, come l’anima, come la mano che dolcemente ormai tanti mesi fa ti accarezzava per l’ultima volta. Lui sì era Ivan, e non quell’altro figlio adottato da morto, che quando preghi in silenzio, di notte, torna quel che è davvero, un estraneo diventato amico, una maschera di dolore che copre il ricordo di un volto che non vedrai più.