Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nella parte in cui parla delle Tavole della legge, afferma che «è contrario al settimo comandamento» (non rubare) anche «pagare salari ingiusti». Così come è «moralmente illecita» la «frode fiscale». Un insegnamento che ieri è risuonato nelle parole del Papa sul dovere – per chi si professa cristiano – di essere coerente con la propria fede anche quando si 'maneggiano' materie come il lavoro e l’economia. «Se uno va a Messa tutte le domeniche e fa la comunione – ha detto Francesco –, gli si può chiedere: “E com’è il tuo rapporto con i tuoi dipendenti? Li paghi in nero? Paghi loro il salario giusto? Anche versi i contributi per la pensione? Per assicurare la salute?». Ci sono, infatti, «uomini e donne di fede», ha aggiunto il Pontefice, che «dividono le tavole della legge: 'Sì, sì io faccio questo' – 'Ma tu fai elemosina?' – 'Sì, sì, sempre io invio un assegno alla Chiesa' – 'Ah, beh, va bene. Ma alla tua Chiesa, a casa tua, con quelli che dipendono da te – siano i figli, siano i nonni, siano i dipendenti – sei generoso, sei giusto?'. Tu non puoi fare offerte alla Chiesa sulle spalle della ingiustizia che fai con i tuoi dipendenti. Questo è un peccato gravissimo: è usare Dio per coprire l’ingiustizia».
Papa Bergoglio ci ha ormai abituato a uno sguardo attento a tutti gli aspetti dell’umano. E in tema di lavoro ha già detto a più riprese cose importanti (una su tutte: togliere il lavoro significa togliere la dignità alle persone). Ma nell’omelia di ieri, pronunciata come ogni mattina nella cappella di Casa Santa Marta, ha affrontato il problema da un diverso (e per certi versi inedito) punto di vista: quello spirituale nel senso più autentico della parola. Un punto di vista che si affianca, come l’altra faccia di una stessa medaglia, all’aspetto morale fin qui prevalente nel magistero, nella predicazione, nella catechesi della Chiesa Cattolica. Il contesto (da tenere assolutamente presente) è quello della quaresima appena iniziata, con il conseguente appello ad una conversione del cuore, cioè vera e profonda e dunque non limitata alle sole forme esteriori. Per il Signore, ha osservato infatti il Papa, «non è digiuno, non mangiare la carne, ma poi litigare e sfruttare gli operai». In altri termini i Dieci Comandamenti non si possono dividere, perché in essi «c’è la legge verso Dio e la legge verso il prossimo e tutte e due vanno insieme». E dunque, «se tu vuoi fare penitenza, reale non formale, devi farla davanti a Dio e anche con il tuo fratello, con il prossimo». Ciò che però è notevole è che tra i tanti esempi possibili di coerenza tra fede e vita Francesco abbia scelto ieri quello relativo al mondo del lavoro, di fatto aggiungendo un nuovo capitolo al già cospicuo
corpus dei suoi insegnamenti in materia. Sappiamo quanto oggi questo sia un tema socialmente sensibile. La crisi e la conseguente disoccupazione hanno aggredito larghe fasce della popolazione, specie le più deboli. Da più parti (e la Chiesa in prima fila) si sono levate richieste accorate affinché la questione lavoro fosse sempre in cima all’agenda degli impegni di governo. Ma proprio nel giorno in cui l’esecutivo italiano ha approvato definitivamente i primi provvedimenti del Jobs act (è una semplice coincidenza temporale, il Papa parla naturalmente al mondo intero e non solo al nostro Paese) le parole di Francesco ricordano alla coscienza di ognuno che, insieme alle politiche volte a creare posti di lavoro, ci deve essere in questa materia (come in ogni attività umana) un ineliminabile impegno personale di rispetto della legalità e della giustizia. In sostanza, afferma il Papa, pagare il giusto salario, non tenere i dipendenti in nero, adempiere gli obblighi fiscali è – oltre che una questione di leggi – anche e soprattutto un dovere individuale. E per chi crede e va a Messa tutte le domeniche, anche una questione di coerenza con la propria fede. Settimo, «non rubare». Così la Dottrina sociale di Bergoglio sul mondo del lavoro, acquista – se possibile – ancora maggiore autorevolezza e credibilità. Il Papa, infatti, rifacendosi alla lezione dei suoi predecessori (si pensi solo alla
Laborem exercens di Giovanni Paolo II) ha posto al centro del suo insegnamento in materia l’inalienabile dignità della persona. A Cagliari, il 22 settembre 2013, di fronte ai lavoratori (molti dei quali in cassa integrazione o rischio di licenziamento) disse: «Dove non c’è lavoro, manca la dignità. E questo non è un problema della Sardegna soltanto - ma è forte qui – o dell’Italia o di alcuni Paesi di Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro». Ecco, dunque, indicate in poche ma efficaci pennellate non solo le conseguenze ma anche e soprattutto le cause del fenomeno. Il denaro al centro, al posto dell’uomo. Il 1° maggio di quello stesso anno, nella festa di San Giuseppe Lavoratore, Francesco fu ancora più esplicito, «Ricordo un bel racconto ebraico medievale – disse –. Un rabbino parlava ai suoi fedeli della costruzione della torre di Babele. In quel tempo si costruiva con il mattone. Ma per fabbricare il mattone, per fare il mattone ci voleva tanto, no?: prendere la terra, fare il fango, prendere la paglia, cuocerlo. E un mattone era una cosa preziosa. Portavano ogni mattone fin su in alto, per costruire la torre di Babele. Quando un mattone, per sbaglio, cadeva, era un problema tremendo, uno scandalo: “Ma guarda cosa hai fatto!”. Ma se cadeva uno di quelli che facevano la torre dicevano solo “riposi in pace!”. Era più importante il mattone che la persona. Questo raccontava quel rabbino del medioevo e questo succede adesso. Le persone sono meno importanti delle cose che danno profitto a quelli che hanno il potere politico, sociale, economico». Nella
Evangelii gaudium, poi, al numero 53, Francesco scrive: «Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa». In pratica la trasposizione sul piano contemporaneo del racconto ebraico. A partire da queste basi, il Papa ha articolato tutti i suoi interventi successivi sul lavoro. La denuncia del «lavoro schiavo», cioè dello sfruttamento estremo dei lavoratori, spesso costretti a orari massacranti in cambio di pochi spiccioli; l’insistenza sulla dignità (visita a Campobasso il 5 luglio 2014): «Non avere lavoro non è solo non avere il necessario per vivere: no, noi possiamo mangiare tutti i giorni, andare alla Caritas o altre associazioni. Il problema è non portare il pane a casa, questo toglie la dignità»; l’altolà a chi intende speculare e arricchirsi sulla pelle dei lavoratori (Udienza generale del 3 settembre 2014, in riferimento alla crisi delle Acciaierie di Terni): «Col lavoro non si gioca. Chi per motivi di affari, denaro, guadagno maggiore toglie il lavoro, sappia che toglie la dignità alle persone»; la riaffermazione dei diritti (incontro con i Movimenti popolari, 28 ottobre 2014): «Nessun lavoratore senza diritti. Nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro. Tutti hanno diritto a una remunerazione degna e alla sicurezza sociale». E infine il pressante invito alla politica affinché questi diritti siano garantiti (Discorso al Parlamento di Strasburgo, il 25 novembre 2015): «Promuovere la dignità della persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata ad arbitrio di alcuno e tanto meno di interessi economici». Naturalmente tra i diritti elencati in precedenza dal Papa c’era anche quello al lavoro. Con le annotazioni di ieri, dunque, il cerchio in un certo senso si chiude. Perché non c’è diritto che non comporti anche un dovere, cioè il diretto richiamo alla coscienza di ognuno. E anche in questo caso al centro di tutto c’è la persona.