Ma lasciare morire di sete e di fame una malata, è costituzionale? È una domanda semplice quella che si affaccia ai pensieri, in queste ore di scontro fra poteri istituzionali, e mentre a Udine si procede con il 'protocollo' – termine squisitamente tecnico ad indicare la morte data a Eluana. È una domanda elementare quella che aleggia sull’incrociarsi di dichiarazioni di onorevoli e giuristi e ministri. «Non è intervenuto alcun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità e urgenza ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione» si legge nella motivazione del 'no' al decreto legge fornita preventivamente dal capo dello Stato. E qui molti – certo digiuni di diritto, e con scarsa dimestichezza con i regolamenti – non capiscono. Non c’è necessità e urgenza? Ma quella donna sta andando alla morte; e la sua fine riguarda tutti noi; concerne il modo in cui, dopo Eluana, si guarderà ai malati senza coscienza, agli handicappati inguaribili, a quelli che vengono considerati «irrecuperabili» a salute ed efficienza. Ci si sente, davanti a certe spiegazioni, quasi come Renzo Tramaglino quando Azzeccagarbugli gli legge una grida spagnola, che pare fatta su misura per lui. E invece, affatto: «A saper ben maneggiare le grida, nessuno è reo e nessuno è innocente», fa dire con un sorriso amaro Manzoni al suo leguleio secentesco. Le ragioni dell’affermata incostituzionalità del decreto filano con apparente scioltezza. Alla fine però il risultato è che, in osservanza di una sentenza, nemmeno di una legge, Eluana deve morire. E dunque il massimo del diritto, passato per almeno dieci aule fra tribunali e Corti d’appello e Cassazione, per una marea infinita di carte, si risolve nella più assoluta delle ingiustizie: una morte atroce data a una donna che mai fondatamente l’ha chiesta. (Se invece che di vita si fosse parlato di disposizioni patrimoniali, sospettiamo che i giudici non avrebbero dato facilmente per acquisita quella presunta volontà di Eluana). Summum ius, summa iniuria, dicevano gli antichi, che già s’erano accorti dell’agile duttilità della legge e della sua interpretazione, concetto ripetuto ieri, non a caso, dal Cardinale Vicario. Tutto in ordine quanto alla forma, e niente a posto invece in quella clinica. Il governo ha raccolto la domanda di quelli che guardano con sospetto a tanta nobile giurisprudenza, se poi serve a lasciare che una donna impotente venga fatta morire. «Vulnus istituzionale », «derive autoritarie», le accuse volano. E sembra che il dramma di Udine sia secondario, in una politica che ostinatamente riferisce ogni fatto a se stessa, e dimentica che il suo vero fine è la polis, cioè la vita dell’uomo. La legge, già. Sia nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sia nella Carta dei diritti fondamentali della Ue si afferma, nei primissimi articoli, il «diritto alla vita». La Costituzione italiana parla di «diritti inviolabili». E dunque non è così strano se molti guardano attoniti a tanto diritto sapientemente sciorinato, il cui risultato è che una donna che respira autonomamente, e ha bisogno solo di acqua e di cibo, venga uccisa. Sarà, questa morte, costituzionale? Se davvero lo fosse, ci sarebbe da avere paura di un tale Stato di diritto. Ma non può essere; tra una sentenza e l’altra, delle tante che hanno giudicato il caso Englaro, che qualcosa si è inceppato, il favor vitae obliato. Il dramma di Eluana ha trovato un’abile regia «politica», e forse anche un favor mortis avanzante nella società ha conquistato i magistrati. (Dal 1999 al 2006 tutti i ricorsi di Beppino Englaro erano stati respinti come inammissibili. Solo dal 2006 la pretesa di Englaro di fare morire la figlia è stata presa in considerazione, e anzi quello alla morte è diventato un «diritto»). E ora, obbedendo a una sentenza, Eluana deve morire. Se è così, tutta la trama del nostro raffinato ordinamento giuridico ha un buco come una voragine: ci si dimentica che il centro è l’uomo, e che il primo dei diritti è vivere. A Udine, il 'protocollo' va avanti.