Dieci anni dopo, la memoria delle terre annientate dallo tsunami è nettissima, in chi come noi era partito per scrivere di quella tragedia lontana: netta come ti resta in mente l’immagine di cose terribili, che non credi di vedere davvero con i tuoi occhi. Dall’aereo che atterrava a Banda Aceh, la punta settentrionale dell’Indonesia appariva dapprima un Eden di campi e risaie e palme; e poi d’improvviso, a due chilometri forse dalla costa, tutto era fango, fango nero, e non più una sola casa, e i ponti di cemento contorti come se la mano di un mostro li avesse stritolati. Ma gli occhi degli uomini parlavano ancora più delle rovine: gli occhi degli ambulanti nel primo mercatino di pesce rimesso in piedi a due settimane dall’onda – dove, da un vecchio registratore, la voce roca di Bob Dylan cantava
Knockin’on Heaven’s door, e sembrava una preghiera. Gli occhi dei vecchi del villaggio thailandese dei Morken, da millenni pescatori: in quegli sguardi di ottantenni nati e svezzati e cresciuti sull’oceano incontravi uno sbalordimento atterrito, come di chi scopra che sua madre è un’assassina. Gli occhi, ancora a Banda Aceh, regione islamica integralista, degli uomini che a due settimane dallo tsunami, seduta sui gradini di casa, immobili guardavano galleggiare nei campi allagati gli ultimi cadaveri, e non li andavano a recuperare e seppellire. Era, quella regione straziata dell’Indonesia, il mondo come forse sarà, il giorno dopo l’apocalisse: e come le bande di cani inselvatichiti riempivano di latrati notte, e come gli uomini tacevano, annientati. In questo scenario di morte me ne rimasi a guardare la ordinata energia con cui le truppe dell’esercito canadese andavano montando depuratori per l’acqua, e un ospedale da campo, su sui si stagliava una grande croce rossa: mi meravigliarono quei ragazzi biondi, stranieri, che si affannavano a reagire alla morte – sotto a un simbolo di cui forse non avevano più memoria, e in cui però i loro padri avevano le radici. La stessa croce rossa campeggiava sul petto di un giovane camilliano americano con cui percorsi le rovine di Banda Aceh: guardava le macerie zitto e attonito, ma già mezz’ora dopo aveva in mente dove, e come, ricominciare. E le suore missionarie che ci accompagnavano? Una era piemontese, e da figlia di contadini guardava desolata le risaie distrutte dall’acqua di mare. Ma già tuttavia si ingegnava a pensare che cosa si sarebbe potuto, ora, in quei campi, coltivare. Di fronte al nulla, nelle terre dello tsunami ho visto la speranza dei cristiani: speranza operante, che già in sé ha il germe di un mondo risanato. Poi, per le strade disfatte vidi arrivare arrancando una vecchia jeep completamente incrostata di fango, e al volante c’era uno con la faccia da italiano. Quando parlò, riconobbi l’accento romagnolo. Era un anziano ma roccioso missionario, l’unico sacerdote cattolico che viveva lì, tollerato e benvoluto dalla popolazione islamica perché si prendeva cura dei bambini handicappati. Era di fretta, e mi disse poche parole: che stava andando a seppellire i morti, che da giorni non faceva altro che tracciare un largo segno della croce su grappoli di cadaveri di uomini e donne, e bambini. «Ma sono islamici», dissi io, interdetta. «Guardi, io sono certo che Dio, lassù, è un solo, e ha misericordia per tutti», rispose lui brusco, prima di risalire svelto sulla sua jeep tenuta insieme dal fango. Dormii, quella notte, nella sua missione; fuori dalla finestra la città sepolta, senza una sola luce, era una voragine di buio. Prima dell’alba dalla cucina sentii dei rumori: mi alzai e trovai le suore e il giovane camilliano che alla luce di una candela recitavano le Lodi. E quel lodare Dio dal fondo dell’inferno mi commosse: io, pensai, non ne sarei capace. E però quel momento mi è rimasto indelebile in mente: a Banda Aceh rasa al suolo, paralizzata davanti a tanta morte, in quelle voci davanti a una fiamma di candela si levava mite una sbalorditiva, ostinata speranza.