Entrando nella piccola cattedrale di San Giorgio al Fanar, la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli, dove domenica papa Francesco celebrerà la liturgia, si rimane sorpresi dalla disarmante semplicità di questo settecentesco edificio di culto. Qui sono entrati nelle loro visite Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nel 1967 vi aveva fatto il suo ingresso Paolo VI, tenendosi per mano con il patriarca Atenagora. Montini pronunciò parole che suonano ancora oggi piene di significato: «Il Signore guidi i nostri passi e i nostri sforzi verso il giorno tanto desiderato della piena comunione. Egli ci doni di essere sempre più animati unicamente dalla preoccupazione del compimento fedele della sua volontà sulla Chiesa, ci accordi il senso vivo dell’unica cosa necessaria, alla quale tutto il resto deve essere subordinato e sacrificato». La risposta di Atenagora fu altrettanto pregnante: «Il Signore ci ha condotti di tappa in tappa e ci ha obbligati a confrontarci con i segni dolorosi della nostra storia comune. Ci ha ordinato di togliere da noi il sipario della divisione: questo noi abbiamo fatto nella misura della nostra debolezza... Cominciamo da noi stessi». Una delle ultime conversazioni di Atenagora, pochi giorni prima della morte, era stata con un giovane diacono del Fanar. Quel giovane era Bartolomeo, oggi suo successore sul trono di Sant’Andrea,
primus inter pares tra i primati ortodossi. Passato qualche giorno da quella conversazione l’allora diacono Bartolomeo appuntava: «Alla mia domanda sulla possibile evoluzione del dialogo con Roma, egli mi rispose in poche parole dicendo che Dio, il quale aveva cominciato quest’opera di avvicendamento e di riconciliazione verso l’unità l’avrebbe portata al compimento desiderato per la gloria del suo nome. Egli non nutriva dubbi su questo, ma era preoccupato piuttosto dell’immutabilità e dei particolarismi...». Atenagora, ormai sul finire della vita, aveva poi concluso: «Siamo arrivati a un punto e ci siamo fermati. C’è bisogno di passi generosi e decisivi per procedere ancora». Non è difficile pensare che queste parole siano state presenti nel cuore del patriarca Bartolomeo già quando il 19 marzo 2013 partecipò alla liturgia di inaugurazione del pontificato del nuovo Vescovo di Roma, compiendo così un atto inedito e un altro «passo generoso» sulla via della fraternità cristiana. Un passo certamente rafforzato nell’incontro con papa Francesco a Gerusalemme, quando parlò della «necessità di condividere la nostra testimonianza in un mondo già altrimenti indiviso». E tanto più qui, adesso, in questa terra che attende Francesco domani, che ci fa memoria della presenza degli apostoli e dove, dopo Gerusalemme, sono sorte le prime e più vivaci comunità cristiane, e la Chiesa dei primi secoli è cresciuta nell’ecclesialità. Nel foglietto che il patriarca Bartolomeo ha fatto distribuire ai suoi fedeli per la visita del vescovo di Roma sono riprese le prime parole di Paolo agli Efesini: «Fratelli, camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato». Noi siamo nel cammino verso l’unità tra i cristiani e non c’è modo di tornare indietro perché l’ecumenismo è, per così dire, una strada a senso unico. E sono «sfortunati - affermava De Lubac - quelli che hanno imparato il catechismo in funzione dell’opposizione a qualcuno: è da temersi che, in tal caso, l’abbiano imparato solo a metà». Il Concilio ha confermato questa intuizione quando ha ricordato che «quanto dalla grazia dello Spirito Santo viene compiuto nei fratelli separati, può contribuire alla nostra edificazione». L’ecumenismo non porta alla conversione verso una parte o verso un’altra: si tratta della conversione di tutti alla verità totale di Gesù Cristo. Ecco perché non c’è ecumenismo senza mutua conversione e rinnovamento delle Chiese. Ripartire da dove tutto è cominciato, dal Vangelo, per tornare alla Chiesa indivisa è il senso di questo viaggio del Papa in Turchia. E oggi, in un mondo molto diverso da quello in cui si incontrarono Paolo VI e Atenagora, un mondo globalizzato, che affronta il dramma dell’intolleranza religiosa e le difficoltà della coabitazione in società sempre più plurali, questo nuovo incontro non può non richiamare alla consapevolezza espressa già cinquant’anni fa dal patriarca ecumenico di Costantinopoli: «L’uomo moderno e il mondo non possono più permettersi il lusso della divisione tra i cristiani, di ragionamenti e riserve mentali che non sono ispirate al Vangelo, di interminabili discussioni accademiche». È dunque questa l’ora della Chiesa unita?