Potrà sembrare un paradosso ma spesso a giocare un ruolo fondamentale per la chiarezza, la parresìa, di un documento, è il non detto. E in questo caso, altra sorpresa peraltro solo apparente, il sommerso emerge quasi a ogni capoverso, come in un puzzle che hai già in testa bell’e finito anche se devi aggiungere ancora tante tesserine. Perché “Dignitas infinita” il nuovo documento del Dicastero per la dottrina della fede, contiene in sé qualcosa di rivoluzionario, come ogni cosa che si dà per scontata senza esserlo affatto.
Nella Chiesa, infatti, sembra un tabù parlare di distinzione tra destra e sinistra o, peggio ancora, tra conservatori e progressisti. Però i distinguo vengono fatti, eccome. Tanto da far venire in mente quella vecchia, sapiente canzone di Giorgio Gaber dove era segno di una diversa appartenenza persino preferire fare il bagno piuttosto che la doccia. No, nella Chiesa non ha senso, è la giusta obiezione, perché qui non si tratta di politica partitica ma di approccio pastorale, di spiritualità, di antropologia, di centralità dell’uomo. E nel caso del nuovo testo, della sua dignità e delle violazioni che subisce, in tutti gli ambienti, dal campo bioetico alla sfera più squisitamente sociale.
Detto in altro modo, l’elenco delle offese perpetrate contro l’essere umano evidenzia l’assurdità di considerare appartenenti a gruppi separati quanti parlano solo di difesa della vita nascente o morente relegando a materia da Codice penale l’abbandono dei migranti o la tratta. E viceversa chi si concentra unicamente sulla difesa dei poveri, sulla tutela degli ultimi dimenticando, come recita una nota di accompagnamento al testo, «che la vita va difesa dal momento del concepimento fino alla sua naturale conclusione».
Alla luce della rivelazione, infatti, la Chiesa, spiega “Dignitas infinita”, ribadisce e conferma in modo assoluto la «dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù». Tale dignità corrisponde «alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale» costituendo «un dono ricevuto» e pertanto presente in un bambino non ancora nato, in una persona priva di sensi così come in un anziano in agonia, o in un immigrato che chiede aiuto. A Gesù e quindi alla Chiesa sta a cuore ogni uomo e tutto l’uomo. Senza questo primato antropologico tutto si riduce e mero opportunismo schiacciato dalle regole di un’economia che relegherebbe l’attenzione alla persona a un freddo confronto tra costi e benefici.
E così lo stato sociale e l’impegno politico staccato dal Dna caritativo richiamato dal magistero papale, Paolo VI ma non solo. Vuol dire che quando la comunità ecclesiale si interessa all’inizio e alla fine della vita, lo fa anche per tutelare il durante, l’interspazio temporale tra i due estremi. E allo stesso modo nel momento in cui guarda all’ultimo, all’abbandonato, al rifiutato, il suo intervento risulta efficace solo se si inserisce nel rispetto della dignità inviolabile di ogni persona, quale che sia, in tutti i suoi aspetti. Su questi argomenti nessuna divisione ha senso perché l’approccio alla vita nella sua dimensione metafisica e trascendente non esclude il riferimento alla realtà di tutti i giorni.
Del resto è questo l’orizzonte in cui opera la Dottrina sociale che concretizza in insegnamenti, documenti, proposte di azioni la missione della Chiesa, il cui sguardo ultimo è però giocoforza calibrato anche sul dopo e sul soprannaturale. La Chiesa insomma non è di destra né di sinistra, così come non è solo cielo o unicamente terra. È amore a Dio e quindi a ogni uomo e donna. Povero o ricco che sia. Ultimo, primo, non nato o morente. La cui dignità è inviolabile, oggi, ieri e comunque. Sempre.