Non sbaglia di certo il presidente del Consiglio quando, in un Senato rivoluzionato nella sua composizione post-elettorale dalla rottura del centrodestra, certifica la fine delle ideologie del Novecento e delle «forze politiche che esprimono, come un tempo, complessive visioni del mondo». La domanda che sorge, però, è se assieme alle ideologie dobbiamo arrenderci a considerare morti anche gli ideali. E se ci si debba rassegnare a rinchiudere tutto – le idee e la visione del mondo, le aspirazioni etiche e l’impegno sociale, il bene comune e il progresso dell’umanità – nel pragmatico recinto della «risposta ai bisogni» e della «buona amministrazione» su cui il neopremier ha impostato la richiesta di fiducia alla sua squadra e al "contratto di governo del cambiamento".
Giuseppe Conte si è presentato ieri al Parlamento, e indirettamente agli italiani, con la giusta umiltà, lui per primo consapevole di non essere né il leader del cambiamento, né uno dei suoi ideologi, ma «un cittadino che si è dichiarato disponibile» e – «mosso da null’altro che da spirito di servizio» – si è reso «anche garante dell’attuazione del contratto di governo». L’«avvocato degli italiani», come ha voluto ripetere, è dunque soprattutto un esecutore, il garante appunto della messa in opera del programma firmato davanti a un notaio dai Dioscuri che gli sedevano accanto, i vicepremier e superministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini, verso i quali Conte ha allargato le braccia all’inizio del suo discorso per lodarne la rinuncia alle ambizioni personali.
E – a ragione – ha rivendicato come una novità positiva il percorso, all’insegna della trasparenza, che ha portato all’intesa tra Movimento 5 Stelle e Lega. Al di là del giudizio sui singoli punti del programma di questa anomala coalizione e sugli strumenti per realizzarlo, infatti, gli obiettivi almeno sono chiari, scritti nero su bianco, e ogni italiano, elettore o meno dei due partiti, potrà giudicarli in base alla coerenza dei risultati raggiunti. Già qualche parte, come il superamento della legge Fornero, è stata omessa nella pur lunga esposizione del presidente del Consiglio; qualche obiettivo, come il "reddito di cittadinanza", è stato posposto ai necessari interventi di potenziamento dei Centri per l’impiego. E viene allora da chiedere al cittadino Conte: ma intanto perché non partite subito con la "pensione di cittadinanza" a 780 euro per gli attuali pensionati sociali, al minimo e invalidi, certamente tra i soggetti oggi più deboli? Magari prima della flat tax che tanto agevolerà i redditi più alti. Vedremo le risposte.
La vera chiave dell’intervento del presidente del Consiglio sta infatti nella sottolineatura che «gli orientamenti politici» debbano essere distinti «in base all’intensità del riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. (...) Pragmaticamente ci assumiamo la responsabilità di affermare che ci sono politiche vantaggiose o svantaggiose per i cittadini e per il nostro Paese; politiche che riescono ad assicurare il benessere e una migliore qualità di vita dei cittadini (...).
Se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente (...) se antisistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene, queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni. A voler leggere con attenzione il contratto di Governo, emerge come l’attenzione ai bisogni dei cittadini sia condotta nel segno alto della politica con la "P" maiuscola, con l’obiettivo di dare concreta attuazione ai valori fondanti della nostra Costituzione». È questa l’unica volta in cui compare la parola "valore", si parla di idealità con riferimento alla Costituzione, mentre tutto il resto dell’intervento di Conte assomiglia tanto a una lista di "cose da fare", meglio a una "lista della spesa", con tante voci condivisibili e apprezzabili – d’altro canto potrebbero non esserlo una «giustizia migliore e più rapida», «una maggiore e migliore spesa sanitaria», un «nuovo patto sociale per dare lavoro» o la «lotta alla mafia»?
Quello tratteggiato da Conte è insomma il trionfo del pragmatismo, venato però da parecchio giustizialismo: tra inasprimenti di pena, più carceri e meno misure alternative, legittima difesa allargata e agenti provocatori, infatti, più che un avvocato pare – a tratti – di ascoltare un inquisitore.
E tutta la filosofia di governo viene compressa – e ci pare un po’ svilita – nell’esecuzione di tre fasi: «ascolto, esecuzione, controllo», come se la politica, appunto, fosse semplice amministrazione e non la guida verso la realizzazione del bene comune del Paese e delle persone che lo compongono. Ecco: la persona è l’altro soggetto, assieme agli ideali, che emerge poco nell’orizzonte di Conte e del suo governo. Accade per esempio – e significativamente – sul tema immigrazione, dove non si parla di persone che migrano o di persone che salvano e accolgono o aiutano gratuitamente i migranti, non c’è alcun ringraziamento per ciò che fanno accanto a noi con noi e per noi qui in Italia, perché c’è posto solo per la falsa narrazione elettorale del «business», del marcio di qualche cooperativa ovviamente da perseguire, delle «infiltrazioni della malavita» altrettanto ovviamente da stroncare. E così pure alla persona Soumaila, uccisa da una fucilata, Conte dedica nulla più che «un commosso pensiero».
Un po’ poco per un efferato delitto, un’esecuzione con ogni probabilità commessa da un cittadino italiano, forse per punire l’attività di sindacalista svolta dal maliano nel ghetto di San Ferdinando, dove mille neri vengono sfruttati ogni giorno. Dopo tanta giusta severità verso chi delinque, ci si sarebbe aspettati da Conte e da Salvini la richiesta di punizioni esemplari per lo sparatore e, come minimo, l’annuncio di un paio di blitz per arrestare e chiudere finalmente in galera gli italiani proprietari dei terreni dove viene sfruttato il sudore di braccianti migranti e italiani; dove, come accade nel Ragusano, le donne straniere sono ridotte a schiave sessuali. In mezzo a interventi non esaltanti da parte delle opposizioni, ieri si è stagliata ancora una volta la figura della senatrice a vita Liliana Segre. Scampata ad Auschwitz, ha ricordato la persecuzione di sinti e rom: «Per questo mi rifiuto di pensare che oggi la nostra società democratica possa essere sporcata da leggi speciali nei confronti delle popolazioni nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le forze che mi restano», ha detto.
E ancora una volta ha passato a tutti noi una fiaccola da tenere accesa. La «gente chiede il cambiamento», il governo «ascolterà i cittadini» ripete il presidente del Consiglio. E noi siamo in attesa di dire «bene» o «male» delle risposte pragmatiche che verranno per le diverse priorità. Sarebbe significativo, però, se il nuovo governo cominciasse a non essere sordo al grido che si alza dal sangue versato nelle campagne di Gioia Tauro, a quello sommerso dalle acque del Mediterraneo, alle mille ferite delle persone che non sono «gente» eppure hanno bisogno di cambiamento.