La sinfonia della vita, con al centro l’essere umano e le relazioni di reciprocità, s’interrompe bruscamente con l’arrivo del dolore e poi della morte. Nel capitolo tre della Genesi, e nei capitoli delle nostre vite.I codici simbolici della narrazione, già abbondanti, qui diventano ricchissimi e potenti, alcuni presi in prestito e intrecciati con miti medio-orientali ancora più antichi. Molti significati simbolici li abbiamo persi per sempre perché troppo "lontani"; altri li abbiamo aggiunti noi durante i secoli, ricoprendo spesso con "stucchi" ideologici i tratti e i colori aurorali dell’affresco originario. Questi grandi testi ci parlano ancora "alla brezza del giorno" se, come i suoi protagonisti, ci mettiamo "nudi" di fronte alla loro essenzialità e ci lasciamo interrogare: «Adam, dove sei?».
Il primo colpo di scena è l’arrivo del serpente, che rivolge la parola alla donna. Parlano dei frutti dell’«Albero della conoscenza del bene e del male», quelli che Elohim aveva vietato all’Adam: «Non devi mangiarli, perché il giorno in cui te ne cibassi, tu certamente morirai» (2,17). In realtà ci troviamo di fronte non tanto a un divieto ma a un avvertimento, a una promessa: quei frutti l’umano non li può mangiare perché mangiandoli morirebbe. Il serpente confuta quella prima promessa, e ne formula una molto diversa: «Voi non morirete affatto. Anzi! Elohim sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi, diventerete come Elohim, conoscitori del bene e del male» (3,4-5). Il serpente termina qui il suo dialogo. Ma quelle sue parole erano state efficaci: la donna si fida della promessa del serpente, guarda diversamente l’albero, i suoi frutti le appaiono buoni, belli, desiderabili; ne mangia e ne offre all’uomo. I due non muoiono, si aprono i loro occhi e vedono diversamente, vergognandosi, la loro nudità. Il primo dato del testo sembra dunque smentire la promessa di Dio («morirete»), e confermare quella del serpente («si apriranno i vostri occhi»).
Il serpente viene subito chiamato il «più intelligente» degli animali creati (3,1). Era anch’esso parte di quella creazione bella e buona, una intelligenza che l’Adam conosceva perché gli aveva dato il nome. Non tutti gli usi delle intelligenze sono per la vita e per il bene. Siamo circondati da gente che usa gli abbondanti doni d’intelligenza per distruggere, evadere il fisco, sedurre e sfruttare i deboli, truffare, perfezionare le slot machine, migliorare l’efficienza delle mine anti-uomo. Di questa intelligenza sbagliata è piena la terra. Esiste l’intelligenza buona della vita, ma accanto a essa c’è anche l’intelligenza del serpente. Questa intelligenza diversa si manifesta come un discorso, un logos. Il serpente seduce e convince parlando, usando quindi diversamente quella parola che aveva creato il mondo, l’uomo, la donna, il serpente. Anche questa è la forza della parola, che come sa creare sa distruggere, sebbene la Parola che crea è più forte e profonda della parola che distrugge.
La storia è piena di parole creatrici, ma anche di parole che con la loro nuda forza hanno distrutto vite, reputazioni, imprese, matrimoni, indotto suicidi. Riuscire a distinguere le intelligenze del serpente da quelle buone della vita è arte fondamentale e difficilissima del vivere; ma l’albero della nostra vita fiorisce se siamo nelle condizioni sociali, etiche e spirituali di apprendere e perfezionare quest’arte. La storia delle persone e delle istituzioni è segnata da incontri decisivi con queste intelligenze diverse. Abbiamo tutti conosciuto persone "molto buone e molto belle" smarrire il filo d’oro della vita, solo perché non hanno saputo (o potuto) riconoscere l’intelligenza del serpente. Ho visto imprenditori perdersi non per mancanza di ordini o di profitti, ma per aver dato fiducia a una logica diversa da quella della vita, perché non hanno scoperto il serpente dietro le promesse di grandi guadagni e facili prestiti, o perché hanno seguito logiche e suggerimenti che hanno finito per distruggere la fiducia buona su cui poggiavano le loro imprese e le loro vite.
Dal "giorno" dell’incontro col serpente, l’intelligenza buona della vita e quella del serpente convivono l’una accanto all’altra, sono intrecciate tra di loro nel cuore di ogni persona, anche di quelle migliori. Si impara il mestiere del vivere imparando a riconoscere la presenza di questa intelligenza diversa innanzitutto dentro i nostri ragionamenti (è sempre una luce buia, che non genera vita ma morte), e solo in secondo momento in quelli degli altri. E poi facendo molta attenzione a non commettere l’errore, molto comune nei responsabili di comunità o di imprese, di considerare alcuni collaboratori come detentori sempre e comunque dell’intelligenza del serpente (e, quindi, da non ascoltare mai e da escludere), e altri come portatori sempre e comunque dell’intelligenza buona e saggia. L’intreccio delle due intelligenze attraversa invece tutti e tutto, ma – non dimentichiamolo mai – l’intelligenza della vita è più forte, vera, tenace, alla fine vincitrice.
Ma c’è ancora un ulteriore colpo di scena, che sembrerebbe persino dar ragione ad alcune parole del serpente: «Ecco, ora l’Adam è diventano come uno di noi, conoscendo il bene e il male» (3,22). L’uomo e la donna hanno perso per sempre l’innocenza dell’Eden e l’incanto della prima creazione; ma il testo ci suggerisce che, paradossalmente, hanno anche guadagnato qualcosa d’importante, perché sono entrati nell’età dell’etica (la conoscenza del bene e del male) e della responsabilità: devono iniziare a rispondere delle loro scelte («Adam, dove sei?», 3,9). Ma allora è anche possibile dedurre da questo racconto della Genesi qualcosa d’importante, forse sorprendente. Una volta fuori dall’Eden, possiamo ritrovare l’interezza, l’armonia, l’unità del paradiso perduto, abitando con l’amore-dolore i luoghi fondamentali dell’umano: «la sofferenza nelle gravidanze», «verso tuo marito ti spingerà la passione, ma egli vorrà dominare su di te» (3,16), «col sudore della faccia mangerai il pane», «finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto» (3,17-19). Dal primo Eden siamo "usciti" per sempre, ma l’Adam non è morto; Elohim gli ha dato una seconda chance: la storia.
E allora la vocazione dell’umanità non può più consistere in un tornare indietro verso quel primo Eden che non c’è più, ricercando magari una purezza e un’innocenza fuggendo dai luoghi più umani del dolore - la generazione dei figli, le relazioni tra pari, il lavoro, la morte. Possiamo cercare e ritrovare le armonie del primo giardino amando, con la buona intelligenza della vita, proprio i luoghi splendidi e dolorosi e dell’umano. Se così non fosse la storia sarebbe inganno, il mondo condanna. E invece la storia è cammino verso casa, dove ognuno porta con sé "in dote" il patrimonio di dolore-amore costruito lungo la strada. È questa la prima grande dignità dell’amore umano, delle famiglie, del lavoro, e anche del ritorno dell’Adam all’adamah.Un compito morale di ogni persona – e dell’umanità nel suo insieme – diventa allora cercare di ridurre il dolore nel mondo.Ci possiamo salvare generando bambini (e facendoli diventare grandi), innamorandoci, rispettandoci nella reciprocità, lavorando, e reimparando in ogni generazione a morire - la nostra deve ancora farlo. Ci siamo salvati tutti i giorni con la fatica-amore dei travagli: quello dei figli, quello del lavoro, e l’ultimo grande travaglio. Sono queste le vie che abbiamo per poter intravvedere una nuova terra-giardino: nuove Eva e nuovi Adamo, alla brezza di ogni giorno. l.bruni@lumsa.it