Il bianco era il colore più atteso, all’Aquila, nel grigio di una piovosa mattina di aprile, che stenta ad aprirsi alla primavera. La veste del Santo Padre, recatosi ieri in visita a Onna e all’Aquila, è stata sommersa da altri colori. Erano quelli dei k-way e della maglieria ancora invernale, altrui o recuperata a casa, della gente che lo attorniava, nel bagno di folla più anarchico di tutto il suo pontificato. Le stecche degli ombrelli si sono avvicinate pericolosamente allo zucchetto bianco; sotto ad essi, mamme con figli piccolissimi in braccio non rinunciavano alla carezza del Papa fatta sulla testina dei piccoli. Non era la carezza notturna del discorso alla luna di Giovanni XXIII, quasi mezzo secolo fa, su una piazza san Pietro e su una via della conciliazione immortalate gremite. Era la carezza del sole velato, dell’alone cinereo che ha riconsegnato l’Aquila, nel periodo successivo alla Pasqua, a un’atmosfera quaresimale. «Sono finalmente con voi, in questa terra splendida e ferita», ha detto il Papa e questo ha fatto sobbalzare due volte il cuore agli abruzzesi, nella seconda e nell’ultima parola. Perché il 'finalmente' esprimeva la fine di un’attesa, così vibrata umile inconsueta per un capo di Stato, per un capo della cristianità messosi quasi in coda a politici, giornalisti, scrittori, cantanti e passerellisti. E nell’ultimo aggettivo, 'ferita' perché che la loro terra – chiamata cuore verde d’Europa – sia bellissima gli abruzzesi lo sanno bene, ma 'ferita' non lo era fino al 6 aprile. Non nuovamente ferita, almeno, dal nemico di sempre, generato dalla stessa terra, che le ha inflitto ferite mortali nel 1703 coi tremila morti dell’Aquila, nel 1706 coi mille di Sulmona e nel 1915 coi trentamila di Avezzano. Tutta la storia d’Abruzzo è scandita dai terremoti. Questo bianco nell’anarchia della folla, che l’apprensione della security non riusciva a tenere lontano dalle mani della gente, ha richiamato un’altra immagine, quella di un predecessore sia di Benedetto XVI, sia di Giovanni XXIII: l’immagine di Pio XII recatosi tra le macerie di San Lorenzo a Roma, dopo il bombardamento alleato durante la seconda guerra mondiale, quando il fondo della veste tinse il bianco di altri indicibili colori, e fece come oggi il giro del mondo. «Vi sono stato accanto fin dal primo momento – ha detto Benedetto XVI – la mia presenza qui vuol significare che il Signore crocifisso vive, è con noi e non ci abbandona ». Ogni parola che non portasse i segni della passione a questa terra ferita sarebbe stata impropria, ma il Papa non è venuto solo nel segno della croce, è venuto anche nel segno della Pasqua, della resurrezione, e ha detto le parole che solo lui è autorizzato a dire: «I vostri morti sono vivi in Dio e attendono da voi un segnale di coraggio ». Era l’annuncio atteso, per ogni cuore che non si rassegna alla perdita. Mentre quelle parole di vita eterna venivano pronunciate, forse un cameraman si è distratto e ha zoomato su cento metri di macerie, di tetti collassati, di muri sventrati e questo parlare di resurrezione in uno scenario di morte è stato il più grande e involontario regista del mondo. Poi il Papa ha lasciato Onna, paese-simbolo del dolore ed è andato all’Aquila. Si è recato alla casa dello studente prima che alla basilica di Collemaggio e alla Scuola della Guardia di Finanza, perché questo è stato il terremoto degli studenti, dei morti giovani, dei sommersi e dei salvati che fino a un mese fa avevano, tutti, davanti una vita che sembrava – coi suoi problemi, con le sue speranze – lunga. Il Papa si è avvicinato a degli studenti. A uno d’ingegneria, che non rientrerà nell’accartocciata facoltà di Roio, costruita con la plastica al posto del cemento, ha detto: ci vogliono ingegneri e tecnici più bravi di quelli che hanno costruito qui; bisogna ricostruire. L’immagine che resta nel cuore di tutti è quella, finale, del Papa nella spianata che fu occupata dai prati di fiori sulle bare. Accanto a quella del pastore entrato a Collemaggio a guardare il suo predecessore Celestino V, incoronato qui nel 1294, coi mattoni sparsi in terra a due passi da lui, nella grande basilica distrutta. È stato un pastore lontano dal fasto. È stato un pastore tra le macerie. È stato un pastore del suo gregge.