martedì 22 dicembre 2009
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Fa freddo, un freddo da morire. Questo modo di dire mi dico con qualche brivido breve, appoggiato al calorifero di casa, bollente dentro una casa che non si scalda come vorrei, e che ai vetri ha un alone esterno di gelo. Morire di freddo? Via, si dice per dire, si dice per gonfiare l’iperbole, per chiamare morte un superlativo di raffronto. Di freddo non si muore, fra noi, gente di civiltà evoluta; e neanche di fame, nel contesto del benessere raggiunto fino all’eccedenza; né di stenti, benché gli stenti ci siano sotto gli occhi, per strada. Il disagio c’è, ma qualcuno dovrà pur rimediare e dunque rimedierà, così ci quietiamo. Il disagio c’è, ma non uccide.Non uccide? La cronaca di ieri racconta la morte vera, la morte del barbone trovato stecchito a Milano, in un giaciglio di cantina in periferia. È il secondo in una settimana, nella "capitale morale" d’Italia. E dire che lì ci sono i 1.400 posti letto dei dormitori pubblici, e due tende riscaldate. Ma non è una tragedia solo lombarda, né solo italiana. È successo in Francia, è successo in Austria, è successo in Germania, è successo in Polonia (15 morti in una sola giornata). E quando è la morte a portare nel fuoco dell’attenzione il dolore invisibile dei vivi che hanno freddo da morire, quando essi da invisibili sono rifatti visibili in quanto sono morti, allora qualche fremito breve ci prende, di confusa vergogna, forse di implicito rimorso.So che ci strappiamo di dosso le rampogne con due pensieri di fuga: il primo è che il soccorso incombe, nella società del welfare, alle "istituzioni" preposte alla tutela dei diritti umani, secondo il progetto della "esistenza libera e dignitosa" che a tutti è promessa, in nome della libertà e dell’uguaglianza che si legge nella Costituzione. Forse per i barboni che trascinano il loro stento per le strade della città indifferente, depositando la loro disperazione quotidiana sui cartoni notturni dei loro anfratti, fra portici e stazioni, la parola "libera e dignitosa" suonerebbe in concreto persino "troppa grazia", persino sogno impossibile da portare in un tribunale, una esistenza che si contenterebbe d’essere "umana". Ma poi, non è il canestro di un piatto di cibo, un vestito, una doccia, una medicina, rimessa al randagio quotidiano bussare, l’esistenza; è il bisogno di relazione, che rassicura il cuore più del soccorso materiale; è il desiderio accolto di un "permesso di esistere" che diventa il passaporto identitario, la ricognizione della familiarità.Il povero, il morto di fame, il morto di freddo, riappare ogni volta all’indomani delle dottrine e delle prassi politiche che da opposte sponde hanno seminato promesse e mietute sconfitte. Diventa una povertà nuda, ci invoglia a un secondo fallace pensiero di fuga: che la tragedia non venga da noi che qualche soccorso pur apprestiamo; che dipenda invece da un rifuto. È abbastanza per assolverci dai nostri rimorsi, come se la colpa di morire dei poveri sia frutto del loro essere fuori sistema?No, non è scusa per noi; la loro difficoltà chiede una nuova chiave di soccorso alle nostre scialbe provvidenze: per capire le frontiere interiori di quella povertà randagia che unisce allo stento fisico la sofferenza del cuore (le famiglie distrutte, per esempio) e spesso del disagio mentale. È questa la vampa possibile, nel freddo che ora ci scuote, è di familiarizzare il dolore. Sono i poveri a riempire il presepe se la buona novella che viene dal cielo è una familiarità definitiva d’amore.
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